venerdì 29 marzo 2013

Cielo a pecorelle

In questi giorni il tempo è così mutevole ed il cielo così variegato che mi è venuto spontaneo, stamattina, pensare ad un libretto che acquistai qualche anno fa e che mi piace ogni tanto sfogliare e tenere tra le mani. E' piccolo e compatto, sta praticamente in un mano, ma è composto da ben 318 pagine, molte delle quali illustrate con incisioni antiche e moderne. Sto parlando di "Cielo a pecorelle - I segni del tempo nella meteorologia popolare" di Carlo Lapucci. Io ho sempre avuto un debole per le previsioni del tempo, forse anche perchè in casa le si aspettava sempre, al termine del telegiornale, come qualcosa che dava una chiusura a quanto ascoltato ed al pasto appena fatto.
Questo piccolo libro è diviso in tre parti: la prima delinea una breve storia dei segni del tempo, riflettendo sull'importanza dell'osservazione delle condizioni metereologiche nel passato, quando l'economia si reggeva sull'agricoltura; le altre due parti sono dedicate alla meteorologia antica, con brani tratti da opere di autori quali, tra gli altri, Aristotele e Virgilio, ed alla meteorologia popolare, con elencati tutti i segni indicatori del tempo in ordine alfabetico, arricchiti da citazioni e proverbi. E' un tuffo nel passato ed una piccola miniera di curiosità che mi ha fatto tornare alla mente l'" Almanacco del giorno dopo", la rubrica che andava in onda su Rai1 quando ero bambina e che era seguita da "Che tempo fa" e che, non so bene perché, amavo molto. Ancora oggi il ricordo della musica molto suggestiva che la caratterizzava (la "Chanson Baladée" di Riccardo Luciani eseguita dall'Orchestra del Chianti e composta da Guillaume de Machaut, un autore del 1300; qui qualche informazione ed immagine sul programma) mi richiama sensazioni e atmosfere della mia infanzia, quando spesso mi ritrovavo ad osservare il programma a casa dei miei nonni, prima di tornare a casa per la cena. Mi sembra ancora di risentire il tepore avvolgente del divano nella sala ed il profumo caldo della cena che si diffondeva dalla cucina, mentre io canticchiavo quel motivo antico...

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro.

giovedì 28 marzo 2013

Il tormento della scrittura

Avevo 7 anni quando scrissi la mia prima poesia ed iniziai ad immaginare un futuro da poeta o da scrittore o entrambe le cose. Ero ambiziosa. Con il passare degli anni questa idea divenne un chiodo fisso. Le due cose a cui non avrei mai rinunciato, così risposi ad un'insegnante del liceo, erano leggere e scrivere. Al liceo ero in un continuo stato di ebbrezza letteraria, persa tra romanzi, racconti e poesie, in intima confidenza con autori che scoprivo e di cui mi innamoravo. Il sogno di essere un giorno accolta in una sorta di Pantheon in cui ritrovarli tutti mi faceva girare la testa.
Una professoressa mi propose di partecipare ad un concorso di poesia, ma all'ultimo momento, per una serie di coincidenze fortuite, non riuscii ad iscrivermi e forse vi vidi un segno del destino. Da adolescenti si è sempre molto tragici. Sta di fatto che da allora non trovai più il coraggio di uscire allo scoperto, continuando a coltivare il sogno praticamente in segreto.
Soltanto qualche anno fa, ebbi finalmente l'ardire di inviare qualche racconto al Premio Calvino, ma sempre all'ultimo minuto, sul filo del rasoio, non riuscendo a mandare che poche vecchie pagine, il minimo per partecipare, perchè di tutto il resto non ero né convinta né soddisfatta. Ovviamente non fui selezionata, anche se il giudizio che mi fu inviato conteneva alcuni commenti che mi resero felice ed altri che mi fecero riflettere su alcuni aspetti da rivedere delle mie storie.
In ogni caso, con il passare del tempo ho lentamente e mestamente abbandonato il sogno. O, meglio, ho razionalmente deciso di lasciarlo andare via. In realtà lui è rimasto sempre lì, come brace sotto la cenere.
Tra i tanti motivi che mi hanno portato a desistere, vi è un non motivo che però si trascina dietro tutti gli altri. Siamo in un momento paradossale, in cui le vendite dei libri, come pure i prestiti in biblioteca, hanno subito un'inflessione mai avuta prima, ma in cui il numero di persone che desiderano scrivere e "fare lo scrittore" è lievitato in maniera impressionante. Mi accodo pure io e mi sento sciogliere, quindi, in un mare di mediocrità. Non che non sia giusto coltivare questo sogno o sentirsi scrittori o comunque provarci, soltanto che temo semplicemente di far parte soltanto di una massa mossa dagli stessi intenti in cui è non solo difficile, ma quasi impossibile emergere e, aggiungo, è molto difficile avere i numeri per poterlo fare. Dal momento, quindi, che non ho affatto la presunzione di avere tali numeri, ecco che il passo definitivo verso la rinuncia è stato breve. Anche, confesso, per non sentirmi troppo ridicola.
Tuttavia, un giorno decisi di leggere "Gita al faro" di Virginia Woolf, un libro che mi emozionò e sconvolse e si insinuò indelebilmente dentro di me. Ricordo che fu una lettura lenta, interrotta più volte per la bellezza soverchiante di certi passaggi, che erano talmente perfetti da richiedere una pausa. Tra i mille doni che questo libro mi ha lasciato tra le mani, uno, più di tutti, ha un'eco che continua nella mia mente. Questo libro mi ha detto che vale comunque la pena di scrivere. Anche se ciò che scrivo finirà in un angolo, dimenticato e sconosciuto a tutti, ne sarà comunque valsa la pena, perché in qualche modo ciò che si crea rimane per sempre e perché l'importante è aver avuto la propria visione. E tutto questo non ha prezzo, è qualcosa di inestimabile.
Ho sempre, purtroppo, le mie cadute a tal proposito ed ogni tanto devo risfogliare quelle luminose pagine e ritrovarvi quelle parole per ricrederci almeno un po'.
Pochi giorni fa ho terminato di leggere "Espiazione" di Ian McEwan, un autore di cui in passato avevo avuto modo di leggere, senza rimanerne troppo colpita, "Il giardino di cemento". Di questo libro, invece, ho amato subito la copertina. La foto della ragazzina seduta sui gradini di pietra dal volto che mi ricorda irresistibilmente Elsa Morante. E' un libro in cui una ragazzina di 13 anni, Briony Tallis, in un torrido giorno dell'estate del 1935, decide di essere diventata scrittrice e, nello stesso giorno, con una odiosa bugia condannerà un innocente segnando per sempre anche il corso della propria vita.
Durante la lettura di tutta la prima parte non sono mai riuscita ad immaginarmi le vicende ambientate nel 1935, ma piuttosto negli anni '60 ed è qualcosa che non riesco veramente a spiegarmi e che tuttavia mi ha condotto ad iniziare la seconda parte, ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale, con un vago senso di smarrimento. Ho trovato il tutto costruito ad arte, con una chirurgica precisione, ma ancora senza troppe emozioni, fino a quando mi sono imbattuta nella descrizione dell'episodio di linciaggio di un uomo della RAF da parte di altri soldati inglesi che è un vero piccolo capolavoro, a mio giudizio.
Briony ritorna nuovamente protagonista nella terza parte del libro e dopo averla quasi odiata in tutte le pagine precedenti, la si ritrova come una giovane adulta, intenta ad espiare la sua colpa e ad inseguire ancora segretamente il suo sogno di diventare scrittrice. E' qui che l'ho sentita vicina, che sono riuscita a perdonarla e a guardarla con più indulgenza, osservandola mentre scrive su un quaderno prima di spegnere la luce. "Al tempo, il diario le serviva a conservare la propria dignità: poteva anche apparire e comportarsi e vivere come un'infermiera tirocinante, ma in realtà era una grande scrittrice in incognito. E in un periodo in cui era tagliata fuori da tutto ciò che conosceva - famiglia, casa, amici - la scrittura rappresentava il filo della continuità. Quello che Briony faceva da sempre." Briony aveva letto Virginia Woolf e aveva inviato un suo racconto nella speranza di essere pubblicata. Come non sorridere con indulgenza di fronte a tutto ciò? Come non sentirla improvvisamente vicina ed amica?
Briony riceve una lettera di risposta che accompagna il rifiuto del suo racconto e che illustra quali sono gli aspetti che appaiono ancora immaturi. E' una lettera che ho bevuto con gli occhi e da cui ho tratto anch'io più di un ottimo insegnamento. In tale modo questo libro è riuscito a riaccendere in me il tormento e la riflessione sulla scrittura, che a ondate mi riassale, lasciandomi ogni volta distrutta e un po' boccheggiante.
Appena terminato "Espiazione", per non riflettere troppo sull'argomento, mi sono gettata nelle breve lettura di "Il ballo" di Irène Némirovsky (e su di lei andrebbe aperto un capitolo a parte, dal momento che ho letto recentemente il suo splendido "Suite francese"). Al di là delle considerazioni sul testo in sé, ho letto alcune frasi dell'introduzione di Maria Nadotti che hanno invece continuato a far fluire le mie riflessioni sulla scrittura: "La scrittura come sfida furente al 'destino femminile', come alternativa al mestiere e al ruolo assegnati alle donne." e ancora "Come è capitato a quasi tutte le grandi artiste [...] anche per Némirovsky la biografia è punto di accesso all'opera. Non solo perché, quando l'artista è donna, i critici tendono a ridurla alla dimensione esistenziale, ad attraversarne l'opera osservando dallo spioncino della vicenda privata. Ma perché le migliori artiste di sesso femminile non hanno mai separato l'opera dalla vita se non attraverso il formidabile atto del dare forma. Basti pensare ad alcuni nomi celebri: Artemisia Gentileschi, Virginia Woolf, Frida Kahlo, Louise Bourgeois."
Su questo tema molto ci sarebbe da dire ed è quasi immediato e banale anche il richiamo a "Una stanza tutta per sé" di Virginia Woolf, ma questa è un'altra storia... ed il mio tormento continua...

martedì 26 marzo 2013

Nuovi attimi da ricordare

In questi giorni ho pensato a tanti post, a tante "riflessioni sui massimi sistemi", a tutte le parole che avrei voluto usare per parlare dei libri che ho letto ultimamente, ma poi, mentre portavo a spasso Moony, la mia cagnolina ormai malata, e l'aria scoloriva velocemente facendo biancheggiare in maniera irreale le corolle delle margherite ormai chiuse ai bordi della strada, ho desiderato solo poter fissare alcuni attimi vissuti in questi giorni.
L'aria dolcissima di Roma domenica sera, mentre passeggiavo per San Lorenzo con alcune amiche. Quanto è bella e struggente Roma quando arriva la primavera. E la domenica sera la piazzetta di San Lorenzo, così gremita e giovane di sabato, è quasi vuota ed induce lo sguardo a soffermarsi sui dettagli, illuminati dalle luci calde dei lampioni. Era la mia seconda uscita con le amiche da quando è nata la mia bambina e sono stata trasportata indietro negli anni, a quando per la prima volta scoprivo i profumi della Roma delle sere estive ed ero inebriata dalla novità di questa città e dalle mia nuova vita che incominciava.
Mia figlia che mangia da sola tutta la minestra per la prima volta ed io che, commossa ed orgogliosa, continuo a farle foto e filmati per fissare questo momento mentre esulto dicendole "Brava!". Sempre mia figlia che, mentre mi abbraccia, mi guarda seria e poi mi dice "Sei uno gnomo!", scoppiando a ridere e facendo scoppiare a ridere anche me.
Vedere la mia selvaticissima gatta che passa dieci minuti a leccare le orecchie ed il muso della nostra cagnolina malata, standole sempre vicina da quando non sta bene, dormendole accanto e non abbandonandola mai per troppo tempo. Mi ha sopreso rendermi conto di quanto gli animali avvertano la malattia ed il dolore ed ho deciso di non dimenticare questi gesti così gratuiti ed umani che ho potuto osservare.
Il mio pesco che mi dà il buongiorno con il suo chiassoso fiorire quando apro la finestra della mia camera da letto e quella sensazione di benessere e pienezza che mi ha dato il ricominciare a sistemare fiori e piante in giardino.
Per tutte le altre riflessioni c'è sempre tempo...

martedì 19 marzo 2013

Condividere

L'altro giorno ho pubblicato una foto sul mio profilo Facebook (e pure in questo post, ma poi l'ho tolta...sempre per le perplessità espresse di seguito e perchè in origine avevo pensato di non pubblicare tale tipo di foto qui) dopo aver tentennato per svariati minuti, incerta e perplessa sul da farsi. E' la prima foto pubblica dove compare mia figlia (e pure da lontano...). Tanti amici lontani mi avevano chiesto di vedere qualche foto, ma io ho sempre evitato, per una questione di cosiddetta privacy, perchè pensavo che magari in futuro la cosa potrebbe non piacere a mia figlia e per altre varie riflessioni di questo genere che poi sono sfociate sul tema della condivisione e sul suo significato o, meglio, sul significato che ha assunto nei nostri tempi.
Ho trovato a tal proposito due articoli (qui e qui) a loro modo collegati, che mi hanno portato ad approfondire la questione, e ne ho ripescato un altro che mi era capitato sotto mano qualche settimana fa (e che ho soltanto in versione cartacea).
Recentemente il Censis ha pubblicato il suo decimo rapporto annuale sulla comunicazione in Italia e ciò che ne è scaturito è che ormai è iniziata a tutti gli effetti l'era biomediatica, in cui l'uomo è sempre più connesso alla rete attraverso smartphone e tablet che utilizza per condividere contenuti relativi alla propria vita quotidiana sui social network. Mondo reale e virtuale si fondono, la macchina diviene quasi una protesi e cambia sempre di più il modo di comunicare. Mi è più volte capitato, in effetti, di trovarmi con amiche/ci che mi parlavano mentre navigavano su Internet con lo smartphone o che si isolavano per continuare a giocare a Ruzzle.
Di questo rapporto mi ha colpito il fatto che le persone non sembrano più in grado di stabilire una gerarchia fra i mezzi di informazione e danno ugualmente credito a tutto ciò che circola in rete. Altro aspetto inquietante è che il numero di libri letti dagli italiani è diminuito ancora: solo poco meno della metà degli italiani legge almeno un libro l'anno. Un altro dato che mi ha fatto pensare è che i biomediatici ricercano sul web solo ciò che già conoscono e che al massimo conferma le loro idee, creando una nuova forma di conformismo. Insomma, tutto sembra essere più superficiale: i contatti umani, l'acquisizione di informazioni, il modo di trascorrere il tempo.
Tutto questo si collega ad alcuni pensieri che ogni tanto mi nascono a proposito del fenomeno dei blog. Spesso mi capita di pensare che i blog sono un modo per condividere che forse è in parte narcisistico, un po' come Facebook. Riflettevo che è strano, come capita a me, mettere online i propri pensieri e poi essere così restia a pubblicare foto. Sui social network ognuno pare celebrare se stesso, con fotografie dalle pose da star e con condivisione di contenuti di altri. Il fenomeno non si può solo demonizzare, ovviamente. Grazie a Facebook ho ritrovato amici che non sapevo come contattare altrimenti e grazie al blog ho "conosciuto" persone nuove e appreso cose di cui non conoscevo l'esistenza. La rete è una miniera. Basta scavare. D'altronde 13 anni fa io, in rete, ho trovato il mio compagno.
Torno a pensare al significato del "condividere" (nell'articolo di GreenMe si parla proprio di questo e di un convegno che si è tenuto a Milano alla Fiera Fa la cosa giusta sulla Sharing Economy). Oggi si usa il termine condividere per pubblicare un contenuto e mostrarlo agli altri sui social network, ma non può significare solo questo. Sono infatti nati tanti progetti e siti per condividere cose, tempo, prestazioni.
E' un mondo diverso che forse rivisita quello del passato in chiave moderna. Sembra però tutto più etereo, inconsistente. Condivido qui i miei pensieri, ad esempio, ma a parte due o tre persone, nessuno dei miei amici lo sa. Il poco tempo a disposizione mi ha portato a frequentare meno gli amici di un tempo ed a non fare quasi nulla per cercarne di nuovi che condividessero i miei stessi interessi.
Alcuni rapporti creatisi in rete grazie al blog sono qualcosa di bello che mi ha arricchito e che continua a farlo, ma mi dispiace, a volte, che rimangano solo virtuali.
Penso poi al consorzio in cui vivo. Qui vi sono un discreto numero di famiglie, ma noi ne conosciamo poche. Le riunioni sono simili a quelle condominiali, sempre litigiose ed estenuanti. Nei miei momenti da "Tamara nel paese delle meraviglie" mi ero anche proposta di occuparmi delle aree verdi che abbiamo a disposizione per dare vita - udite udite - ad un orto-frutteto comune con tanto di compostiera e ad un'area gioco per i bambini. L'idea è andata subito a monte prima ancora di essere proposta, perchè tutti avevano da ridire anche relativamente a questioni di piccole spese necessarie, quindi una proposta così "superfluea" era impensabile.
Recentemente qui vicino è venuta ad abitare una nuova famiglia dove c'è una bambina poco più grande della mia (lo so perchè in giardino c'è una bicicletta rosa). Li ho visti solo passare in macchina ed andavano sempre troppo velocemente perchè li si potesse salutare. Non mi piace essere invadente e sono tendenzialmente restia a farmi avanti, ma nella mia mente penso sarebbe bello, quando una nuova famiglia viene a vivere qui, darle un segno di benvenuto, un saluto, un dolce fatto in casa...non so, qualcosa così...
Io stessa condivido spesso solo con il pensiero, ma sono talvolta incapace di farlo nella realtà. La questione è complessa, ha varie sfaccettature e forse meriterebbe un approfondimento a parte. So solo che oggi avrei voglia di condivisione, ma mi manca il coraggio per fare i primi passi e nemmeno so bene come iniziare...

venerdì 15 marzo 2013

A proposito di giocattoli

Nel post di ieri mi ero fermata a riflettere sui giocattoli cosiddetti da maschio e da femmina e a ripensare al mio bene più prezioso di quando ero bambina: la bicicletta. Oggi mi è capitato così di ricordare un libretto che qualche tempo fa avevo ripreso tra le mani in un momento di nostalgia: Il catalogo dei giocattoli di Sandra Petrignani (qui il blog dell'autrice), edito da Baldini & Castoldi, definito da Ian McEwan "Un incantevole esercizio di leggerezza". E così è, in effetti, perché questo piccolo volume trasporta in un tempo ormai passato e fa sorridere di tenerezza per i bambini che siamo stati.
E' un vero e proprio catalogo, dove ogni capitoletto è dedicato ad un gioco o giocattolo, spesso ormai desueto, ed alcuni di essi non sono stati neppure protagonisti della mia infanzia, perchè appartengono ad alcuni decenni precedenti. Il primo di essi, il cui titolo avevo cerchiato in passato ad una prima lettura, è l'altalena, l'altro bene assoluto della mia infanzia, quello che sapeva darmi i brividi e farmi sentire ebbra di gioia. Ci sono poi le biglie, il carillon, la cerbottana, le figurine (il traffico di figurine era qualcosa di meraviglioso!), la Barbie, la girandola, la matrioska (passione di mia figlia), il pongo e così via, fino al macinino da caffé.
Leggerlo fa rievocare lunghi pomeriggi assolati che sembravano infiniti, un po' polverosi e sudati, o i corti pomeriggi invernali nel tepore di casa mentre mia mamma trafficava in cucina e fuori turbinava il freddo o ancora l'azzurro terso di certe mattine di primavera, magari durante le vacanze pasquali, quando non si andava a scuola ed avevo tutto il tempo per me.
Questo libro mi ha fatto venire in mente anche un altro volume che avevo acquistato usato qualche tempo fa, "Giochi giocattoli passatempi" di Fabio Galvano, che non è altro che un manuale pratico per fabbricare ogni tipo di giocattolo e che risale al 1975. Quando lo avevo visto mi aveva subito attratta perchè mi piaceva l'idea di realizzare per mia figlia qualche gioco fatto a mano e mi immaginavo il mio compagno ed io armati degli strumenti per fabbricarli. Non so se avremo mai tempo e modo di seguire le istruzioni di questo libro, ma sfogliarlo porta veramente in un altro tempo, quando era ancora normale l'idea di costruirsi una pista delle automobiline, un burattino, un castello medievale, un'altalena, uno xilofono e così via.
Oggi si parla molto di riuso, riciclo, recupero, quindi un libro di questo tipo, alla fine, si rivela ancora molto attuale. Mi piace molto il suo sottotitolo "Costruire e riparare con abilità e intelligenza, inventare e realizzare con fantasia i giocattoli per i nostri figli. Un hobby per chi li crea e un divertimento per chi li usa." Fa venire voglia di darsi da fare...
Con questo post partecipo al Venerdì del libro.

giovedì 14 marzo 2013

Avere una figlia oggi

Da sempre, anche quando ancora non pensavo concretamente alla maternità, nella mia testa frullava il desiderio di una figlia. Forse per l'attrazione esercitata su di me dalle saghe familiari in cui le donne sono grandi protagoniste, come "La casa degli spiriti", ed in contrasto con una lieve misoginia che non mi ha mai portato ad avere durature amicizie femminili, il pensiero di una figlia è esploso quando sono rimasta incinta. Quando ho saputo che era femmina, ho provato una gioia immensa.
Ma cosa vuol dire oggi crescere una figlia? La faccenda è complicata. Essere donna è complicato, forse più adesso che in passato, perchè adesso, in teoria, puoi scegliere come vuoi essere. Dico in teoria, perchè in realtà i binari tracciati sono infiniti e basta guardarsi intorno per scoprirlo.
Ho sempre pensato che uomo e donna siano caratterizzati da diversità da valorizzare per potersi completare a vicenda. Ingenuamente, desiderando una figlia femmina, non mi ero mai fermata a riflettere sugli stereotipi di genere con i quali avrebbe dovuto scontrarsi inevitabilmente e dai quali la complessità e peculiarità dell'universo femminile ne escono impoverite in maniera avvilente.
Ammetto che è piacevole talvolta vestirla in modo grazioso e comprare per lei qualcosa di sfizioso da indossare. Eppure non voglio che lei finisca per essere la mia bambola da vestire e preferisco accumularle nell'armadio libri che le darò quando sarà cresciuta. A breve la mia bambina compirà due anni. Con il papà abbiamo pensato ad un regalo per lei, che è sempre in movimento, che ama camminare ed esplorare, ma anche calciare il pallone. Il risultato della consultazione è stato una bicicletta, adatta alla sua età ovviamente.
La bicicletta. Nella mia infanzia quest'oggetto è il simbolo di una libertà sconfinata, di lunghe corse solitarie in cui mi sembrava di avere tutto il mondo tra le mani.
Felice di questa scelta, mi sono messa alla ricerca. Forse nel posto sbagliato. E' stato piuttosto sconfortante girare tra gli scaffali dei giocattoli. Un reparto bambina che esplodeva davanti agli occhi per il rosa accecante che caratterizzava ogni cosa. Passando ho notato la cucina giocattolo, un set comprensivo di ferro da stiro e lavatrice che una bambina dal sorriso smagliante indicava dalla confezione, l'asse da stiro, il set da the e così via. Poi il reparto bambino, con macchine, piste per le macchine, set da meccanico, stazione dei pompieri, ecc.
Ora, non che io voglia escludere a priori che mia figlia si possa divertire con una cucina giocattolo o un ferro da stiro, perchè cadrei nell'errore opposto, ma non vedo perchè un bambino non si possa divertire altrettanto con i suddetti giocattoli.
Pochi giorni fa mi è capitato di sentire dire che un camioncino non era adatto per la mia bimba, ma lei si è divertita ugualmente a farlo andare avanti e indietro, così come si diverte a cullare e a dare la pappa ai suoi pupazzi. I bambini non hanno il pregiudizio. Siamo noi ad insinuarlo nella loro mente.
Certe volte penso che per mia figlia forse vorrei un nido come Egalia, un asilo svedese in cui i giochi sono uguali per maschi e femmine (qui qualche informazione su questo approccio sperimentale) e si usano pronomi neutri per tutti.
Recentemente mi è capitato di leggere questo articolo in cui che riflette su quanto sia difficile oggi crescere una ragazza. Qui si parla anche di alcuni "parenting guru", tra i quali Steve Biddulph (autore di Raising Girls), una sorta di versione angloaustraliana del nostrano Paolo Crepet, che condanna inevitabilmente "la melassa della pin ki fication, ovvero il corredo di abitini ro sa, bambole rosa, ca merette rosa e giocattoli da massaia in erba che spesso accompagna una bim ba. [...] l'abbiglia men to da non-spor care-o-sciupare, l'edu ca zione prudente e conformista, la pre sun ta accoglienza femminile (bambine troppo buone saranno donne colpevo liz zate, lente a liberarsi dei partner sbagliati), i romanzi e i film dove il lie to fine coin cide con un ma trimonio..." (frasi tratte dall'articolo citato). Eppure si mettono in evidenza anche le infinite possibilità che oggi le giovani donne hanno rispetto al passato, le mille sfaccettature della femminilità che possono finalmente incarnare.
La conclusione è che il rischio, il pericolo peggiore in questo ampio spettro di possibilità, è, come sempre, il consumismo. "Ne deriva che le ra gazzine di oggi siano prede magari informate ma ubbidienti, lucide ma zeppe di bi sogni in dotti."
Il mondo delle donne. Quante riflessioni ne possono scaturire e difficilmente si riesce ad affrontare l'argomento senza cadere nella banalità, come sempre succede, ad esempio, nel giorno della Festa della donna. Io ho sempre un rapporto contrastato con l'universo femminile a cui appartengo, ma mi rendo conto che ciò che me lo fa guardare con distacco e diffidenza e quasi con un senso di non appartenenza, è spesso il prodotto di uno stratificarsi di stereotipi, che sono molto distanti da quella che sarebbe in realtà l'intima natura femminile.
In occasione dell'8 marzo sono usciti questi articoli (qui e qui), in cui si parla di una lingua segreta, conosciuta solo dalle donne in Cina, il Nushu, l'unica lingua di genere al mondo, "il dialetto delle confidenze", creata da un gruppo di donne dello Hunan nel 1600 per raccontare segretamente la loro vita di sofferenze. Recentemente è stato riscoperto ed è divenuto, come accade di consueto con questo tipo di cose, un fenomeno di moda e di costume, raffinato e d'élite, per il quale fioriscono manuali ed eventi. Ed ecco il consumismo che si riaffaccia e che sgretola la profondità delle cose.
Non è facile, oggi, crescere una figlia. E quello che forse le dovrei regalare per il suo compleanno non è neppure una bicicletta, ma occhi per guardare davvero il mondo, per coglierne la bellezza e la complessità e per saper scegliere liberamente come agire in esso.

mercoledì 13 marzo 2013

"Viaggio che non finisce"

Questa settimana mi sono concessa un po' di tempo per me. O almeno una pausa dall'università. Rimangono la casa, mia figlia, il lavoro di battitura testi, ma ho finalmente qualche ora per me, in cui la mente può vagare liberamente dietro ai pensieri.
Ho pensato subito di stilare una lista delle cose che avrei voluto fare (avevo parlato qui dell'arte di creare liste), ma, inevitabilmente, mi sono ritrovata a compilare un elenco che meritava il titolo di "Cose da fare". Di fronte alle infinite possibilità che si schiudono quando traspare un momento da dedicare a se stessi, spesso, o almeno così accade a me, si avverte un senso di smarrimento. Non perchè non si sa cosa si desidera fare, ma perchè le cose che si vorrebbero fare sono troppe ed anche perchè si è troppo abituati  a non fermarsi. Paradossalmente è più facile continuare con il proprio frenetico ritmo quotidinano.
Fermarsi obbliga a ripensare ai nostri schemi mentali, alla nostra routine di gesti, parole, comportamenti di tutti i giorni. E comporta anche un venire a galla di sensi di colpa perchè non si sta compiendo i propri doveri.
Fermarsi sembra un atto sbagliato, di chi non ce la fa, di chi è debole, di chi non sa cavalcare l'oggi.
Nel silenzio di questa mattina finalmente ferma, mentre scrutavo il tempo fuori dalla finestra trovandovi una giornata quasi autunnale, d'improvviso ho preso dalla libreria un cofanetto color carta da zucchero, di cui quasi non ricordavo l'esistenza. Anni fa, quando frequentavo l'università a Genova, mentre aspettavo il treno mi fermavo spesso a frugare tra i libri di una libreria alla stazione Principe, dove ho trovato tanti preziosi volumi a metà prezzo, Remainder's, fondi di magazzino, occasioni speciali. Fra questi c'era il piccolo cofanetto carta da zucchero. Quattro piccoli volumi. Tre raccolte di poesie ed un'intervista. L'autore è Luciano De Giovanni, un poeta sanremese quasi sconosciuto, il "poeta stagnino". La Liguria e la poesia. Un binomio che sembra imprescindibile ed al tempo stesso inconsueto per la natura aspra e selvatica di quella terra, che è al tempo stesso sublime.
Ho aperto il primo volume "Viaggio che non finisce". Ho sentito fortemente la nostalgia per la Liguria e per quegli anni passati. Ho avvertito prepotentemente il desiderio di rifugiarmi in un luogo lontano. Ecco cosa vi ho trovato.

Fatemi trovare l'uscita
di questo rumoroso labirinto
affinché subito me ne vada
lasciandovi alle vostre cure.
Certo un errore 
mi ha tratto in questo luogo.

Per favore:
quella montagna all'orizzonte
con un cuscino di nebbie
non è già oltre i vostri confini?

Mi rammarico che le opere di questo poeta siano praticamente introvabili (qualche notizia qui e qui, qualche poesia si trova sparsa per la rete). Mi perdo a leggere la breve introduzione alla raccolta, che riporta un passo di un articolo apparso su "Stampa sera" nel 1958, in cui si parla del poeta: "Quando può, esce la notte, gira per le strade, guarda le stelle. Ama la natura e girovaga per i boschi."
Oggi vorrei crogiolarmi un po' in quel mondo perduto, immergermi in quei versi.