mercoledì 26 dicembre 2012

Il mio Canto di Natale

Da un po' di anni a questa parte, ogni anno, all'approssimarsi delle feste natalizie, mi ritrovo ad andare in cerca dello Spirito del Natale Presente, accorgendomi infine con rammarico di riuscire sempre e solo ad incontrare lo Spirito del Natale Passato (o meglio dei Natali Passati). Ogni volta finisco quindi per rammaricarmene, per pensare che non riuscirò più a risentire quell'atmosfera magica di quando ero bambina, che ormai è tutto un inutile consumismo, che ogni cosa legata al Natale è per me priva di senso e significato, che mi pesano pranzi e cene in famiglia, perchè tanto ci si può vedere anche in altri momenti dell'anno, ecc. Da quando c'è mia figlia, poi, si è aggiunta la speranza di ritrovare quell'atmosfera quando sarà abbastanza cresciuta da sentirla. Ancora fino ad oggi non ero riuscita ad aggrapparmi a questa idea con troppa convinzione. Mi sono ritrovata così quasi alla Vigilia di Natale a lamentarmi di non riuscire proprio a sentirla questa benedetta atmosfera natalizia, trovando vano ogni sforzo in tal senso. Giustamente il mio compagno mi ha fatto notare che però dovevamo impegnarci per farla sentire alla nostra piccola, perchè lei ha il diritto di conoscere questa magia così speciale che ricorre una volta l'anno. Per fare un ulteriore tentativo, giorni fa ho deciso di leggere il "Canto di Natale" di Charles Dickens, che, mea culpa, ancora mancava all'appello dei miei classici. La storia è nota. Ho iniziato quindi a leggere con la consapevolezza di quanto sarebbe successo, ma poi mi sono lasciata stupire ed ammaliare dalla vivezza, dalla bellezza, dalla colorata veridicità della descrizione della mattina del Natale Presente che lo Spirito mostra a Scrooge. Questa descrizione, da sola, è capace di far risentire in pieno l'atmosfera delle mattine di Natale della mia infanzia, quando la neve imbiancava tutto fuori dalla finestra, quando le persone che si incontravano per strada salutavano con un'allegria ed un calore ingenuo ed assurdo, seppur bellissimo, quando la tavola era imbandita e traboccante delle cose buone cucinate da mia mamma e mia nonna (su tutte i tortellini fatti in casa galleggianti nel brodo fumante), quando i pacchi colorati da scartare con indosso il pigiama ed il calore dell'aspettativa notturna erano una promessa di tesori inauditi.
Ho proseguito nella lettura e l'ultimo capitolo, quando Scrooge si redime e cambia definitivamente il suo atteggiamento, è un vero tripudio di allegria. La felicità del personaggio, con il suo entusiasmo fanciullesco e folle, diviene contagiosa ed è impossibile resistervi. Almeno per me così è stato. Ed un passaggio, proprio nell'ultima pagina, mi ha molto colpito, tanto da decidere di annotarne una breve frase sulla mia lavagnetta in cucina (dopo aver deciso che d'ora in poi, invece di annotarvi sporadicamente le cose da comprare, vi scriverò sopra qualche frase che mi colpisce tratta da romanzi, poesie o altro, per poterle avere sotto gli occhi fin dal mattino). Si tratta di questo, che, a mio avviso, si commenta da sé:
"Qualcuno rise di questo mutamento, ma egli lo lasciò ridere e non ci fece caso, perchè era abbastanza saggio da sapere che nulla di buono succede su questa terra, senza che qualcuno, sulle prime, si prenda il gusto di riderne. E sapendo che tali persone sono sempre cieche, pensò che, in fin dei conti, era un bene che esse strizzassero gli occhi ghignando e non esprimessero invece i loro sentimenti in qualche altra forma meno piacevole. Del resto anche il suo cuore era tutto un sorriso, e ciò era per lui più che sufficiente."
Ieri è arrivato il Natale e posso dire finalmente che quest'anno qualcosa è forse cambiato per me. La sera della Vigilia siamo stati dai miei cognati. Purtroppo era presente solo una parte dei nonni. Eppure sono stata straordinariamente bene. E soprattutto mi si è allargato il cuore vedendo la mia piccola giocare con i cuginetti. L'anno scorso era troppo piccola. Quest'anno, invece, si rincorrevano, salivano sui gradini della scala, ridevano tra loro. La mattina di Natale lei ha scartato i suoi piccoli regali. un libro con tantissimi animali disegnati da riconoscere e nominare, il pupazzatto di Pimpi di Winnie Pooh che le piace tanto, un coccodrillo di legno da tirare con la cordicella regalatole dagli zii. Anch'io ho scartato i miei due regali. Quelli del mio compagno. Da un po' di anni a questa parte in famiglia abbiamo deciso di non farceli, ma quest'anno mi sono ritrovata a sceglierne due per il mio compagno, per poi scoprire che anche lui me ne aveva fatti un paio. A sopresa è arrivato anche un regalo da mia cognata: due deliziose tazze con dei gufetti. Mentre cucinavo i Baci di Dama ed il profumo delle nocciole inondava la stanza e mentre mia figlia giocava con i suoi nuovi giocattoli, la mia mente si è riempita dei Natali Futuri, fatti di serate come quella della Vigilia appena trascorsa, di risate e giochi fra i cuginetti, di gioia e di stupore negli occhi di mia figlia per le luci dell'albero, per i pacchi che racchiudono tesori inimmaginabili. Lo Spirito dei miei Natali Passati si  è allora trasformato in quello dei suoi Natali Futuri ed io, finalmente, ho fatto pace con il mio Natale Presente.

mercoledì 12 dicembre 2012

Una torta di mele senza burro e uova? Sì, è possibile...

Oggi sono inquieta. Mi sento come un insetto intrappolato in una lampada, che non riesce ad uscire e sbatte da una parte all'altra e più si agita e meno possibilità ha di trovare la via di fuga. Ondeggio tra una cosa e l'altra, faccio propositi e cerco di programmare i giorni a venire, ma il risultato è sempre lo stesso. Oggi non riesco a concludere nulla. Considerato questo, preferisco chiudere la giornata pensando alla mia nuova torta di mele, fatta appena ieri e ormai quasi finita. Premesso che il mio rapporto con la cucina è sempre di amore ed odio, un vorrei ma non posso, una ricerca di costanza e sperimentazioni che spesso finisce nel nulla, in questi ultimi giorni mi sto cimentando in alcune nuove ricette trovate qua e là sul web, sostanzialmente per provare ad eliminare i classici ingredienti tipo burro, uova, latte, ecc., ma anche per la curiosità di vedere se ciò è davvero possibile e con che risultati. 
Mi sono imbattuta quindi in una ricetta di una torta di mele senza burro e uova che ho trovato qui (sul sito Il bambino naturale) e che ho deciso di provare. Come sempre, mi sono dovuta ricredere su un mio pensiero fisso, ovvero che ci voglia parecchio tempo per poter cucinare qualcosa di nuovo. Questo è uno dei motivi per cui spesso desisto dal mettermi ai fornelli.
La ricetta è di una semplicità disarmante. Eccola:
200 g di farina
120 g di zucchero di canna
(io ho usato il Mascobado, quello delle Filippine, dal sapore molto particolare)
70 g di olio di mais
(io ho usato quello di girasole)
3 mele
1 pizzico di sale
acqua o latte vegetale qb
(io non l'ho usato perchè l'impasto era già perfetto anche senza)
cannella
1 bustina di cremor tartaro o lievito per dolci
(mi era rimasto solo il lievito vanigliato)
Si fanno cuocere le mele a pezzetti per qualche minuto con un cucchiaio di zucchero (un cucchiaio a parte in più rispetto ai 120 g previsti che finiranno nell'impasto) ed un cucchiaio di acqua. Poi si frullano le mele con lo zucchero e la cannella. Si uniscono gli ingredienti secchi e poi si aggiungono i liquidi. Infine si inforna a 180° per 45 minuti (io non ho usato il forno ventilato).
Non ho aggiunto le classiche fette di mela sopra, ma ho cosparso alla fine la superficie di zucchero a velo (lasciando un bel cuore al centro perchè ero in vena di romanticherie...). Il colore dell'impasto è scuro per via dello zucchero di canna ed il contrasto con il bianco dello zucchero a velo mi piace dal punto di vista cromatico.
Il risultato è stato sorprendente ed eccellente al tempo stesso. La torta è leggerissima, soffice e deliziosa. Sono rimasta davvero stupita. E' stata più che apprezzata anche dal mio compagna e dalla mia piccolina, tanto che ormai ne è rimasta ben poca. In questo caso mi sono proprio resa conto che uova e burro non servivano minimamente per avere una torta squisita. E' stata una piacevole scoperta.

domenica 9 dicembre 2012

L'occhio della pecora un anno fa ...

Più o meno un anno fa mi è capitato di vedere una cosa che, in quel preciso momento della mia vita, è stato determinante per le mie scelte. Forse era sotto le vacanze natalizie, comunque ricordo che faceva freddo. Stavo tornando a casa con la macchina, quando all'improvviso vidi una coda di auto davanti a me. Piano piano, a passo d'uomo si procedeva. Arrivata ad un incrocio, ecco il motivo del rallentamento. In mezzo alla strada, sdraiata su un fianco, c'era una pecora. Era stata investita da una macchina, ma era tutta intera. Un uomo era uscito dalla sua auto e stava usando il telefonino per chiamare qualcuno. La pecora era lì sola. Le macchine le passavano accanto incuranti. I conducenti un po' scocciati per il rallentamento. Intorno a lei un vuoto totale. Stava morendo ed era sola. Ad una persona non avremmo destinato lo stesso trattamento. Le saremmo stati vicino. Un sottile filo di sangue rosso cremisi le usciva dalla bocca. E poi l'occhio. Vidi il suo occhio. Il suo sguardo. Sgranato. Spaventato. Puntato verso il cielo. E sentii un dolore terribile. Quella sofferenza piena di solitudine. Quella morte che non importava a nessuno. In quel momento tante cose mi si collegarono nella mente. Pensieri che mi ronzavano da tempo nella testa. E decisi che non avrei più mangiato carne, perchè in quel momento pensai a tutti quegli animali che ogni giorno avevano negli occhi quello stesso sguardo per colpa nostra. Da allora è iniziato un percorso non facile, prima per farlo accettare a familiari ed amici (forse più per far accettare a me stessa il fatto di doverlo giustificare). Un percorso pieno di dubbi, non tanto su me stessa, ma sul comportamento da tenere nei confronti di mia figlia, per non imporle una mia scelta, per non farle rischiare carenze vere o presunte, per mediare con le scelte del mio compagno, che idealmente è d'accordo con me, ma adotta un'alimentazione che ancora include carne, anche se poca e da agricoltura biologica. Lui  teme che la privazione di questo alimento possa nuocere alla bambina e comunque ritiene che l'ideale sia limitarne il consumo il più possibile, mangiando però un po' di tutto.
E' un percorso che condiziona parecchio la vita e si entra in una spirale di pensieri da cui è difficile uscire. Perchè se è vero che una scelta del genere nasce dal desiderio di non far soffrire altri esseri viventi, nessuno può garantire che anche le piante non soffrano. Anzi, studi scientifici pare abbiano dimostrato il contrario, ovvero che le piante possano provare una sorta di emozioni. Come spesso mi dice il mio compagno quando sono afflitta da questi pensieri, il mio problema è che probabilmente non amo il modo in cui è concepito questo mondo, in cui, anche dietro la serenità del più meraviglioso ed idilliaco dei paesaggi, si nasconde sofferenza e lotta dura per la sopravvivenza.
Se la scelta vegana appare subito troppo estrema, leggendo ed approfondendo l'argomento, si comprendono molte delle ragioni di tale scelta, soprattutto per la triste sorte delle mucche da latte e delle galline ovaiole.
Casualmente, dopo un po' di mesi dall'inizio di questo cambiamento, una coppia di amici ha iniziato un percorso simile, diventando però presto praticamente vegana, piuttosto che vegetariana. Ho potuto così confrontarmi con loro su ricette ed alimenti sostitutivi. La dieta che ho dovuto seguire per un periodo mi ha portato a rimangiare il pesce, che avevo eliminato in precedenza. E ad oggi, mi ritrovo sempre combattuta su questo versante. Compro pesce pescato e non da allevamento, ma il problema non cambia. Inoltre ho sempre avuto problemi, prima ancora di questa scelta, proprio con i pesci, perchè ogni volta che entravo in pescheria e li vedevo sul bancone mi sentivo un po' angosciata dai loro sguardi liquidi che parevano scaturire ancora dalle profondità del mare, che ancora parevano conservare l'immagine di paesaggi sommersi a noi ignoti.
Il punto è che una volta che si fa il passo con la testa e con il cuore, poi non si riesce a tornare indietro. Se prima guardavo le mucche su un prato e pensavo: "Beh, tutto sommato fanno una bella vita, stanno all'aperto e in pace" (almeno per quelle che stanno qui nei dintorni), adesso quando le vedo, penso sempre che non sanno cosa le aspetta e che non trovo giusto riservare loro una fine così brutta.
Ho scoperto che il latte si può sostituire benissimo con quello di avena, soia, riso. Che burro e uova non sono così indispensabili nei biscotti e nelle torte. Che gli yogurt di soia sostituiscono bene quelli normali. Che il seitan è ottimo per preparare il ragù vegetale, cotolette, spezzatini, ecc. Idem la soia o il tofu (che poi è sempre soia). Ancora fatico ad abbandonare i formaggi, che sono sempre stati un mio grande amore, ma ci sto lavorando sopra. Sono sempre piena di dubbi su mia figlia. All'asilo non ho scelto per lei un menu differenziato, perchè volevo evitare problemi. Mi dico ogni volta che sceglierà lei come vorrà quando sarà cresciuta e che noi le insegneremo e spiegheremo come stanno le cose, per darle la possibilità di decidere da sola senza angosciarla. Ma non c'è una posizione che mi convinca completamente.
Il mio cammino è ancora in via di perfezionamento. Contrariamente agli amici di cui sopra, che hanno letto molto sull'argomento e visto filmati anche angoscianti sul web sul trattamento degli animali negli allevamenti, io non sono riuscita a leggere e vedere quasi niente. Non ne ho sentito la necessità ed ho voluto anche evitare a me stessa di starci troppo male. La bibliografia sull'argomento è ricca ed i personaggi famosi che hanno abbracciato questa scelta sono molti. Chi vuole può farsi una cultura sull'argomento. Da "Se niente importa. Perchè mangiamo gli animali?" di Jonathan Safran Foer a "Perchè sono vegetariana" di Margherita Hack, fino a "Il maiale che cantava alla luna. La vita emotiva degli animali da fattoria" di Jeffrey Moussaieff Masson e così via.
Sono incredibili le incongruenze presenti soprattutto nei libri per bambini (vedi soprattutto quelli incentrati proprio sulla allegra fattoria), ma in generale un po' dappertutto (ricordo ad esempio lo slogan su un sacchetto di un noto fast food: "Fiero di essere un vero pollo!"). Ci si rende conto che esistono animali di serie A ed animali di serie B. Animali che teniamo in casa e per cui saremmo disposti a rinunciare a tante cose ed animali che facciamo nascere e vivere solo per essere uccisi e consumati.
Ho intrapreso un percorso pieno di contraddizioni, errori, aggiustamenti, senza la volontà di fare la morale a nessuno, forse solo a me stessa, tendendo in una direzione.
Da tanto ne volevo parlare, ma è un argomento su cui fatico ad esternare la mia posizione, perchè la nostra vita è così impregnata da un certo modo di vedere le cose, che una posizione differente può apparire strana, estremista, troppo eccentrica, non equilibrata. Io non so se ciò sia vero o meno, ma so che ormai non posso fare a meno di seguire questa strada, cercando sempre equilibrio e tentando di limitare i danni, qualunque essi siano, cercando di non essere mai essere estrema e adattandomi alle situazioni. Non mi sarei mai aspettata da me una tale scelta, ma, a ben pensarci, ce l'avevo scritta dentro, dal momento che fin da piccola mi ritrovavo a salvare anche formiche ed insetti, pipistrelli e vermi. In famiglia non siamo mai stati dei gran mangiatori di carne. I miei genitori venivano da famiglie di contadini. Mio padre pascolava le mucche da bambino e di certo gli allevamenti all'epoca non erano quelli intensivi di oggi. Mio nonno materno non riusciva ad uccidere i maiali e le galline perchè aveva dato loro un nome e ci si era affezionato. Ho sempre visto mio nonno un po' come un San Francesco, che nell'orto riempiva i fusti dell'acqua fino all'orlo per far sì che gli uccellini avessero sempre da bere.Tutta la mia famiglia ha sempre amato molto gli animali.  Forse non poteva che finire così per me.
Sarebbero tantissime le cose da dire e vorrei tornarne a parlare, perchè i motivi di una tale scelta sono vasti ed abbracciano vari versanti ed ordini di idee e le riflessioni che ne scaturiscono sono moltissime. Non ultime quelle che riguardano lo sviluppo e la storia del genere umano, che è stato strettamente connesso allo sfruttamento degli altri esseri viventi. Cosa saremmo diventati se avessimo fin dall'inizio vissuto in modo diverso? Ci saremmo già estinti? Che mondo ci sarebbe oggi?
Per il momento mi limito a concludere con una frase di un sopravvissuto di Hiroshima con cui Elsa Morante aveva voluto aprire la quarta di copertina del suo "La Storia" (come riportato nel testo "I migliori anni della nostra vita di Ernesto Ferrero, di cui ho parlato qui):
"Non c'è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perchè della loro morte".
Ecco, io credo che questa frase parli da sé ed abbia un valore non solo per il mondo umano, ma a livello universale.

Nota: la foto della pecora è presa da qui.

martedì 4 dicembre 2012

Tornando a casa...

Qualche giorno fa sono stata nuovamente a trovare i miei genitori con la mia bimba. Il papà, purtroppo, causa lavoro, è rimasto qui. Abbiamo preso l'aereo ed anche questa volta mi sono stupita di come hostess e stewart siano sempre in qualche modo "belli". Hanno un aspetto quasi etereo, proprio come fossero forgiati, modellati dal vento, dall'aria, dalle nuvole che attraversano ogni giorno. Un'aria dignitosa, uno sguardo profondo che sembra volgersi lontano. Una gentilezza algida, non reale, non umana, inarrivabile. Movimenti sicuri e fludi anche mentre l'aereo balla tra le nubi.
Sono stati giorni rilassanti e stressanti al tempo stesso, perchè mia figlia si è ammalata quasi subito (il clima più umido e freddo?) e la casa (che non è quella della foto...magari lo fosse!) è abbastanza anti-bambino (con scala a portata di mano, camino, forno e fornelli accesi accessibili, cane e gatto socievoli solo fino ad un certo punto...). Eppure sono stata bene. Soprattutto al mattino presto, quando ancora gli altri dormivano ed io mi svegliavo per guardare fuori i luoghi familiari immersi nel silenzio, con in sottofondo il suono macinante e sempre uguale dell'orologio attaccato al muro.
Vicino alla nuova casa dei miei un tempo c'erano campi e prati, adesso un nugolo di case che cresce e si moltiplica ad ogni mia visita. Tra le nuove abitazioni è rimasta, come un'isola di un tempo passato, come se lì ci fosse un varco temporale per un'altra dimensione, una villa ormai disabitata, che non ero mai riuscita a vedere così da vicino come questa volta, proprio perchè un tempo non era possibile avvicinarsi così tanto. Leggende metropolitane della mia infanzia volevano che nel giardino della villa si celasse uno stagno con sabbie mobili pericolosissime. Gli alti alberi e le siepi che circondavano la casa impedivano di vedere dentro il giardino e ciò alimentava ancor di più la certezza che vi si nascondesse qualcosa di veramente terribile.
In questo mio soggiorno ho fatto una passeggiata con mia mamma e la bimba e, armata di macchina fotografica, sono riuscita finalmente ad immortalare la villa. Quest'estate avevo scrutato con timore e attrazione le fronde fitte che la nascondevano alla vista, una macchia di nero tra le luci troppo chiare delle case attorno. Ho fotografato anche ciò che resta di un vecchio fienile, che da bambina potevo vedere solo da lontano, perso nei campi. Le siepi e gli alberi della villa erano un brulicare di ballerine bianche, uccelli così esili ed eleganti dalla lunga e sottile coda (che mia nonna chiamava infatti codone), che sgranavano i loro cinguettii al nostro passaggio. Ce ne siamo stupite e rallegrate, indicandocele vicendevolmente. Ho riflettuto sul fatto che la mia capacità di stupirmi di fronte alla natura deriva in gran parte dai miei genitori e dai miei nonni. Sono loro che, con l'esempio, mi hanno insegnato a guardarmi intorno e a notare tutte le cose belle che mi circondano.
In questi giorni mi sono reimmersa in una realtà che non mi appartiene più, cercando di acciuffare ciò che di buono racchiude in sé. Ho allora ascoltato le chiacchiere di paese tra mia mamma ed una sua amica che era passata a trovarla. Ascoltavo la voce di questa signora, così quieta e monotona, che raccontava in modo cadenzato, morbido, quasi sussurrando. Cose senza importanza e minuscole, in verità. Eppure prestare attenzione e partecipare a questa piccola chiacchiera mi ha cullata. Questo piccolo mondo del paese, che tanto non sopporto, in quel momento, dall'esterno, è riuscito a rilassarmi, a farmi sentire tranquilla.
Non sono riuscita ad incontrare gli amici, per vari motivi, e mi sono dovuta limitare ad una lunga telefonata con una di essi per avere aggiornamenti e notizie dell'ultimo minuto. La permanenza forzata dentro casa mi ha però permesso di fare un po' di foto e di filmati e, soprattutto, rovistando in soffitta, di ritrovare il preziosissimo album di fotografie di mia nonna, che ormai da sette anni si andava cercando tra gli scatoloni ancora rimasti dal caos del trasloco e per cui mia mamma ed io ci disperavamo ogni volta. Mentre mia figlia saltava su e giù dal letto e mia madre cercava invano di tenerla calma, io, imperturbabile, mi guardavo il contenuto di questo album come fosse uno scrigno di tesori, ritrovando i volti bellissimi dei miei nonni a ventanni, quando, pur vestiti di abiti poveri, sembravano due luminosi attori del cinema in bianco e nero. Dietro ogni foto c'è annotato un piccolo numero. Lo scrissi io una notte di circa dieci anni fa, quando, dopo una scossa di terremoto, andai a dormire da mia nonna. Passammo la notte a guardare le foto ed io annotai su un quaderno tutto quello che lei si ricordava: chi c'era, dove erano, cosa era successo.
Ho poi camminato nel viale di platani su cui si affaccia il palazzo in cui ho vissuto da bambina, mentre la pioggia scendeva piano. Mentre i miei piedi calpestavano il letto di foglie cadute, sono stata assalita dai ricordi. La sensazione di quelle foglie è impressa nella memoria dei miei piedi. Ho avuto la certezza che in quella pioggia che cadeva morbida sull'ombrello di mia madre, in quel cielo lattiginoso, in quelle piante molli di pioggia erano racchiuse la mia infanzia e la mia adolescenza.
Come sempre, ne ho approfittato per sbirciare tra le librerie di mio padre, trovandovi un nuovo interessante acquisto: "Gli occhi della libertà" di Fabrizio Achilli, un libro fotografico sulla Resistenza vicino a Piacenza. Mi sono persa a guardare tutte quelle fotografie di un tempo che sembra ormai così lontano. Mi ha colpito una parte del testo in cui l'autore parlava dell'importanza non solo fisica, ma anche simbolica della montagna nell'ambito della Resistenza, e del suo legame strettissimo con la figura del partigiano. Veniva citato Calvino e si faceva riferimento all'esperienza partigiana come all'attraversamento di una soglia. Questo mi ha colpito perchè mi ha fatto tornare alla mente un racconto che avevo scritto anni fa e che avevo proprio inviato al Premio Calvino (sì, una volta in vita mia ho avuto il coraggio di farlo...poi non più...). Le riflessioni scaturite mi hanno portato a riprendere in mano alcuni libri: Fenoglio con "I ventitré giorni della città di Alba", "Il partigiano Johnny", "Primavera di bellezza", "Una questione privata" e "Una guerra civile" di Claudio Pavone, un saggio storico sulla moralità della Resistenza che avevo studiato per l'esame di Storia Contemporanea vari anni fa.
Certo gli ultimi giorni sono stati meno rilassanti, tutti un po' ammalati, chiusi in casa ed io, infine, ho iniziato a risentire l'esigenza di ritrovarmi nel mio ambiente, di tornare a quello che ormai è felicemente il mio mondo, di recuperare i miei spazi. Speravo solo che il mio secondo nipotino nascesse mentre noi eravamo lì, invece ha deciso di affacciarsi al mondo giusto un paio di giorni dopo la nostra partenza. Mi è toccato quindi vederlo solo in foto, mentre mia figlia, senza che io le avessi detto nulla, all'apparire dell'immagine ha esclamato "cuginetto!", lasciandomi basita a domandarmi se è capace di leggermi nel pensiero. Solo oggi, dopo vari giorni, in una giornata altrettanto piovosa e ventosa di quella che ha visto il nostro ritorno, sono riuscita a trovare un momento per fissare anche questi ricordi, prima che il tempo li afferri e li lasci fuggire via.


martedì 20 novembre 2012

Miliardi di tappeti di capelli, una famiglia di gufi e un memory

Questa è stata una mattina tutta per me. Non ho mai avuto un buon rapporto con il mondo dei capelli. O, meglio, con quello delle parrucchiere. Non sono mai riuscita ad averne una fissa e negli anni ho saltato da una all'altra sotto i suggerimenti delle amiche, senza riuscire mai a trovare pace. In un tempo ormai molto lontano avevo i capelli lunghissimi, poi, dopo il primo colpo di forbice, è iniziata la peregrinazione. Sono finita quindi bionda (ahimè per assecondare il volere di un ex che neppure apprezzò molto il risultato), poi un giorno la parrucchiera di un'amica non solo mi fece bionda, ma, alla mia richiesta di avere i capelli mossi, mi riempì la testa di boccoli e così diventai (per fortuna per un periodo brevissimo) Piggy dei Muppets. In seguito ne trovai un'altra. Era identica al personaggio del telefilm "La tata" (mi pare si chiamasse così), sia fisicamente che nell'atteggiamento. E così via, senza trovare mai quella giusta. Finchè mia suocera, un giorno, trovò Walter. Da Walter, dove il tempo si è fermato.
Dove l'arredamento è ancora quello degli anni '60-'70. Dove la musica scaturisce da una radio grigia con mangianastri. Dove c'è l'angolo dei bambini con uno sgabello a cui è attaccata una sagoma ritagliata nel compensato a forma di testa di cavallo. Dove ci sono un po' di riviste, ma non molte e quasi sempre le stesse. Dove trovi le signore che si vanno a far sistemare i capelli per la domenica, assolutamente corti, come li portano sempre le signore, che sembrano aver rinunciato per l'età alla loro antica arma di seduzione. Dove Barbara, la ragazza che aiuta per lo shampoo e le tinte, ha qualche anno più di me ed è sempre gentile e con il sorriso genuino. Dove non c'è il brusio dei pettegolezzi e delle chiacchiere sulle ultime vicende dei vip. Dove c'è, appunto, Walter, un signore dai capelli bianchi e grigi e dalle rughe buone intorno agli occhi ed alla bocca, che ci mette tempo, pazienza, dedizione per fare un semplice taglio o una semplice piega. A volte fin troppo tempo, perchè passa e ripassa con le forbici, con la spazzola e il phon, alla ricerca di una perfezione certosina. La mia tendenza a frequentare poco il parrucchiere mi è rimasta comunque addosso, ma, andando da Walter, so che almeno posso fare un viaggio nel tempo e rallentarlo a mio piacere, godendomi il suono dell'asciugacapelli e dimenticando in un oblio sonnolento tutte le cose da fare. Per questo oggi, a distanza di non so nemmeno io quanto, sono tornata a tagliare i capelli che ormai non avevano più una forma, con la prospettiva poi di regalarmi il resto della mattinata, dedicandolo ancora a me stessa. La tappa obbligata è stata la libreria. Anzi, due librerie. A questo giro, però, ho rinunciato all'acquisto di libri. Come ultima cosa di questa mattina tutta per me ho cercato un vestito. Non credo di aver comprato vestiti in questi ultimi due anni e, solitamente, non amo molto andare in giro per negozi di abiti, se non quelli dell'usato. Oggi ho fatto un'eccezione. Sono tornata alla forma di quando avevo 20 anni, quindi ho deciso di farmi un regalo. Ed ecco allora un negozietto piccolo, ma accogliente e coloratissimo (sempre consigliato da mia suocera), con dentro un camerino di prova arredato come un piccolo salotto un po' orientaleggiante, con una lampada ed un tappeto persiano,  ed una signora simpatica e davvero speciale nei consigli che sa dare e per le cose che vende. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata ed ho scoperto che fino a qualche anno fa è stata una produttrice di vestiti e accessori ed ha vissuto in Nepal, dove affidava il lavoro di realizzazione di stoffe, vestiti e borse a varie famiglie del posto. Abbiamo parlato della situazione del mercato dell'abbigliamento, di come molto spesso i negozianti non siano molto cortesi, della vita in generale. Ne sono uscita con due vestiti ed un portafoglio (il mio era ormai distrutto) ad un prezzo onesto rispetto a quello che si trova in giro e con la sensazione positiva di aver parlato per davvero e con una persona interessante. I gufi e tutti i rapaci notturni sono una mia passione da sempre, quindi perchè non indossarli pure? Prima di tornare a casa sono tornata in libreria, perchè mi era tornato in mente uno dei libri suggeriti quest'ultimo Venerdì del Libro e, invece, ne sono uscita con un memory. Mi sono immaginata in futuro, intorno ad un tavolo di Natale, a giocarci con il mio compagno e la mia bimba. Infine mi sono avviata verso il nido e, sebbene fossi lievemente in ritardo, ho deciso di allungare un po' la strada e di fare la mia solita "allungatoia", una strada che passa in mezzo agli alberi del bosco vicino al lago e che ha sempre un'atmosfera sospesa e solenne. La strada sfocia direttamente vicino al lago, che appare sempre come una visione. Calmo e grigio in questa mattina di novembre. Capace di lenire la mia mente come un balsamo. Ancora più quieto e profondo grazie ai colori dorati dell'autunno. Ho ripreso la mia piccola ed insieme ci siamo avviate verso casa. Dalla cima della collina dove vivo, nelle giornate limpide si vede il mare. Oggi il cielo era un susseguirsi di nuvole che copriva tutto, ma in lontananza c'era uno squarcio ed il mare pareva oro bianco fuso, ancora più abbagliante contro il grigio piombo del cielo. Tornata a casa ho pensato ai capelli e la mente è andata ad un libro acquistato qualche anno fa in una bancarella, "Miliardi di tappeti di capelli" di Andreas Eschbach. Ricordo che la copertina non mi attirava per niente, ma il titolo e la trama mi avevano incuriosito. Un libro che mi ha affascinato e che ho trovato molto originale. E' un romanzo di fantascienza ed è davvero particolare. Parla di un mondo in cui esiste una casta privilegiata di tessitori di tappeti fatti con i capelli di mogli e figlie, i cui membri impiegano l'intera vita per tessere ciascuno il proprio tappeto che andrà ad adornare il Palazzo delle Stelle, dove vive l'Imperatore di tutto l'universo, una specie di dio. E' un mondo in cui la vita scorre in modo arcaico ed immobile da secoli e secoli, fino a quando iniziano a giungere notizie di una ribellione avvenuta da qualche altra parte dell'universo. Purtroppo non lo ricordo più nei dettagli, ma so per certo che mi era piaciuto e che era particolare la forma utilizzata per dare vita alla storia: non un'unica narrazione, ma una frammentazione di racconti che insieme fanno comprendere quanto accade (qui si può scaricare il primo capitolo). Mentre riprendevo in mano il libro e cercavo di far riaffiorare i ricordi, mia figlia aveva ricominciato a giocare con i suoi pupazzi, fra tutti soprattutto quelli storici del suo papà, Musetta e Zibibbo, e un orsetto che mi era stato regalato in passato da un amico. Mi ero già rituffata nel nostro pomeriggio, mentre la stanza scoloriva veloce intorno a me ed un filo di rosso amaranto colorava l'orizzonte.

venerdì 16 novembre 2012

I migliori anni della nostra vita

Giorni fa avevo scritto questo post, in cui anticipavo fugacemente alcune impressioni su un libro che stavo leggendo, ovvero "I migliori anni della nostra vita" di Ernesto Ferrero. Ho finito il giorno dopo il libro in questione, ma non sono riuscita subito a scriverne ed oggi fatico a mettere in forma scritta le mie idee in proposito, perchè, una volta chiuso, si ha l'impressione di aver richiuso anche la porta dalla quale si aveva scrutato fino a quel momento i personaggi e si ha paura, riaprendola, di arrecare disturbo, portare distrazione, quasi fosse meglio ripassare in un altro momento.
In questo libro si entra nella storia della casa editrice Einaudi o, meglio, si entra proprio nella casa editrice, sembra di farne parte. Pare di entrare nelle stanze di Via Biancamano (la sede storica di Torino), di affacciarsi un attimo nella stanza di Pavese con la sua aria sofferente, o in quella di Calvino, perduto dietro un mare di carte in atteggiamento silenzioso e meditabondo, o ancora in quella di Einaudi stesso, mentre Elsa Morante parla con lui di "Menzogna e sortilegio".
Mi sono goduta ogni pagina ed alla fine ho pensato che era troppo breve, che mi sarebbe piaciuto leggerne ancora qualche pagina, perchè fa impressione vedersi davanti tutti quei mostri sacri nella loro quotidianità, nelle loro fragilità, nella loro completa e totale umanità, di cui spesso ci si dimentica proprio per la loro grandezza.
Ferrero, responsabile dell'ufficio stampa della Einaudi dal 1963, ci racconta allora la storia della casa editrice e dei suoi protagonisti direttamente dall'interno, dal cuore e dalle viscere delle cose, mettendone in risalto luci ed ombre, conflitti e pacificazioni, la morale e la condotta, le personalità, i rituali, l'ascesa e la caduta, riportandone in vita i protagonisti come forse mai li abbiamo visti.
Ho sempre avuto un debole per le biografie degli autori e mi piace indugiare a leggerle e rileggerle prima o dopo l'inizio di un libro, perchè è lì che vi si può trovare il nodo per dipanare la matassa di quello che si legge ed è lì che li si riesce a sentire profondamente vicini, trovando rispondenze e assonanze.
Su tutti emergela figura di Giulio Einaudi, principe della casa editrice, algido e minimalista come le copertine dei suoi libri, ma al tempo stesso eccentrico ed apparentemente volubile, animato nel suo operare da una volontà morale di contribuire a creare l'anima degli italiani. Come gli scrisse una volta il padre Luigi: "Tu sei stato qualcuno e lo sarai di nuovo; sarai, non so se il più grande economicamente, che non conta nulla, il capo spirituale nel tuo ramo, se continuerai a tenerti fermo al principio che ti ha tratto in alto dal gregge: cercare dappertutto la parola di verità, la parola di chi scrive come pensa, anche se quella parola è diversa e opposta a quella di chi comanda, anche se è diversa dalla tua. Sii sempre quel che fosti in passato." Ed è quel che emerge da questo libro. Una moralità che accomuna tutti coloro che lavorarono nella casa editrice durante gli anni d'oro, con diverse sfaccettature, tante quante erano i volti che la animavano, e che li aveva resi una sorta di comunità spirituale, quasi di confraternita di frati, semplice ma raffinatissima al tempo stesso.
Giulio Bollati era l'altra anima della casa editrice, l'altro volto di Giano, colui che ribadiva più volte che il compito della casa editrice era di contribuire alla formazione della classe dirigente del Paese, colui che l'aveva resa, come dice Ferrero, "Un pubblico servizio gestito come un maniero dei Relais & Chateaux". Sperava in una classe dirigente che fosse modello di vita e di democrazia, ma anche di gusto, attenta alla cultura ed all'educazione.
In tutto questo alone di serietà non mancano però gli episodi buffi o divertenti, umanissimi, per esempio quello che ruota intorno all'incontro tra un profumatissimo tartufo di Alba e Kruscev o ancora i ritiri "spirituali" in montagna, a metà tra vacanza e lavoro, dell'intero gruppo.

Oltre a Einaudi e Bollati, sfilano poi tutti gli altri protagonisti di quelle stanze. Primo fra tutti Calvino, di cui Borges (cieco) disse: "L'ho riconosciuto dal silenzio", vestito dimessamente, una presenza solo in apparenza di basso profilo, ma pregnantissima, maestro assoluto dei risvolti di copertina, lavoratore instancabile, umanissimo nel rispondere con infinita pazienza alle migliaia di lettere degli aspiranti scrittori, offrendo consigli, spiegando cosa andava e cosa no. Poi Pavese, che, come dice Ferrero, "restava qualcuno che sapeva dar voce agli stati d'animo dei miei vent'anni", con "il senso di rivelazione imminente che aleggia sui suoi scenari di città e di collina, la ricerca di sé che si sfoga in lunghe passeggiate notturne, silenzi, chiacchiere inconcludenti con amici stonati...".
E ancora Vittorini, Munari, Leone e Natalia Ginzburg, Norberto Bobbio, Primo Levi, Gadda, Dacia Maraini, Lalla Romano, Fenoglio, Sciascia, Elsa Morante, Mario Rigoni Stern, Montale, Pasolini e ancora tanti tanti altri. Ci sarebbe troppo da dire su ciascuno e penso sia meglio lasciare ad una lettura personale la scoperta di quanto si dice di ciascuno di loro.
Come un filo che collega molti di essi, l'impegno civile, la Resistenza, gli ideali morali, politici e culturali.
Inutile dire che il libro mi è piaciuto e che, a mio parere, ne è valsa la pena leggerlo, sia perchè racconta di una parte importantissima della nostra cultura, sia perchè è stato bellissimo poter accorstarmi così da vicino agli autori che più ho amato nell'adolescenza (e che continuo ad amare) ed osservare la genesi delle loro opere.
Sono tante le frasi che ho sottolineato per i più svariati motivi. Chiudo con due di esse.
"Cerchiamo ... di stabilire un contatto, sia pure dialettico, tra i ragazzi e il mondo che li ha preceduti: perchè se non conoscono la vita, l'infanzia e il mondo dei padri e dei nonni, non capiranno neanche la loro infanzia, il loro mondo." (Daniele Ponchiroli)
"Il libro è lo strumendo della redenzione degli italiani, della loro crescita civile."

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro.

martedì 13 novembre 2012

Il gioco delle noci


Pochi giorni fa mi sono imbattutta in questo articolo, che parla di qualcosa di - a mio parere - veramente curioso. Pare che in questo periodo dell'anno in Cina si scateni una vera e propria passione per le noci e per una serie di giochi ad esse legati. I cinesi sembrano allora trascorrere l'autunno tenendo in mano due noci, strofinandole una con l'altra, ma non solo. Il passatempo preferito sono le scommesse sulla bellezza e perfezione delle noci che scaturiscono fuori dal mallo. Il commercio delle noci a scopo alimentare è qualcosa che non permette di campare, mentre quello che riguarda le scommesse ed il collezionismo garantisce un giro di affari strepitosi.
Tutto ciò (di cui si trovano i dettagli nell'articolo sopra menzionato e qui) mi ha enormemente affascinato. La Cina è sempre un'incredibile insieme di tradizioni antiche e di capitalismo moderno e mi colpisce molto il fatto che vi sia ancora questa usanza così antica e che in un Paese che cresce a ritmo così frenetico (e per noi angosciante ed inquietante) vi sia ancora il tempo per qualcosa del genere. Trovo davvero particolare il fatto che (come viene sottolineato nel secondo articolo citato) le noci siano uno status symbol per i nuovi ricchi cinesi insieme ai beni di lusso tipicamente occidentali. Le noci sembrano incarnare perfettamente le contraddizioni di questo Paese.
L'azzardo ed il commercio sulle noci è qualcosa di più di una scommessa o del semplice collezionismo. Servono (come dice anche l'autore dell'articolo) tatto, immaginazione, attenzione, intuizione, così come, per i produttori, una sapiente capacità di creare innesti, modellare i malli, selezionare esemplari.
In particolare trovo molto bella la chiusura dell'articolo:
"I cinesi stringono sempre due noci nell'incavo di una mano. Le fanno ruotare, le premono l'una contro l'altra per affinarle, ascoltano la loro voce. Sono convinti che sia un'attività salutare per le articolazioni, contro la vecchiaia di ossa e cartilagini, e che dia una seria ripulita ai pensieri. Le belle noci passano di padre in figlio, raccontano la storia della famiglia e toccarle significa dare la mano a chi è andato via. Nei negozi di antiquariato si trovano frutti di valore, invecchiati in mani famose. Toccarle è un gioco che aiuta a non limitarsi alle piccole cose, come il volo di un aquilone perduto in fondo al cielo."
Pensavo a queste collezioni di noci che passano di padre in figlio come un tesoro prezioso, ad un uomo seduto sulla soglia che scruta il cielo facendo ruotare le noci tra le mani, ascoltandone il suono morbido e secco al tempo stesso. Ho provato a tenerne in mano due, a farne per qualche attimo il mio "antistress" e mi sono resa conto che in effetti è rilassante ed ispira immagini, storie, pensieri.
Se poi, come dice la medicina trazionale cinese, il gioco delle noci aiuta a rendere più fluida la circolazione sanguigna, a purificare l'organismo e a trattenere alcune caratteristiche (penso negative) del proprietario, allora il tutto assume una valenza terapeutica da non sottovalutare.
Fino ad oggi conoscevo soltanto il sapore particolarissimo del nocino, un liquore fatto con le noci (da cogliere rigorosamente la notte delle streghe, ovvero tra il 23 ed il 24 giugno), di cui ho ricevuto varie volte in dono qualche bottiglia da un amico che lo autoproduce in maniera eccellente.
Mario Rigoni Stern, in "Arboreto selvatico", ricorda una canzone popolare che si cantava in guerra e che diceva:
"Ti ricordi quelle sere
sotto l'albero di noce
mi dicevi a bassa voce ..."
Gli innamorati pare andassero sotto il noce a sussurrarsi parole d'amore, perchè nel passato le noci erano di buon augurio per le nozze (oltre che afrodisiache) e venivano lanciate agli sposi, invece dell'ormai imperante riso.
Per approfondire un po' miti e leggende sul noce (come su molti altri alberi e piante in generale), vado spesso a consultare un libro che amo molto: "Florario" di Alfredo Cattabiani (una vera miniera di notizie, come pure gli altri suoi libri simili, ma riguardanti altri temi). Qui riscopro il legame del noce con le divinità femminili greche e romane, da cui discende il collegamento con le streghe (vedi sopra rispetto al momento più adatto per cogliere le noci per il nocino). Nella notte di San Giovanni le streghe, secondo la leggenda, volavano nei cieli per raggiungere il noce di Benevento, sotto cui aveva luogo il sabba ed in generale, un po' in tutta Italia, il noce era considerato l'albero ideale per il sabba. Da ciò è discesa poi la credenza popolare che facesse male dormire sotto un noce.
Le credenze su questo albero sono ambivalenti. Simbolo di morte e di abbondanza al tempo stesso, è legato a qualcosa di magico ed ultraterreno, al punto che nelle favole (vedi fratelli Grimm) le noci sono legate a tesori od oggetti particolari, magari dotati di poteri.
Numerosi sono poi i giochi che, nell'antichità ed in un passato più recente, i bambini facevano proprio con le noci, tanto che ne è nato un modo di dire, "Giocare con le noci", proprio per intendere il gingillarsi.
Ho scoperto infine che vi sono numerosi proverbi ispirati a questi frutti. E le curiosità sono ancora tantissime sull'argomento.
Chiudo questo lungo post sperando che le mie due noci possano allontanare un po' dei pensieri e delle ansie di questi giorni. Come il cinese nell'immagine nata nella mia mente, forse devo anch'io trovare il tempo di mettermi seduta a guardare il cielo rigirandole tra le mani.

giovedì 8 novembre 2012

Visioni

Ieri, dopo parecchio tempo che usavo la macchina per gli spostamenti (so che sarebbe meglio evitare ma risparmio un po' più di un'ora di viaggio), per vari motivi ho dovuto riprendere il treno per andare a Roma. Sebbene ami guidare (anche se non nel traffico di Roma), viaggiare con il treno è un ritorno alle origini. D'altronde dal liceo in poi, sono stata sempre una pendolare. Sempre sul treno. Il treno invita ad indugiare sui dettagli, specialmente quello che ho preso, che fa tutte le fermate. In macchina i dettagli sfuggono. Si coglie una visione d'insieme del cielo e di ciò che ci circonda, ma è tutto fugace, passeggero, soprattutto se si guida.
Ieri mi sono allora abbandonata a quello che vedevo. Voglio ricordare alcune visioni e sensazioni, del treno e non solo.
Alla stazione, mentre attendevo l'arrivo del treno, mi è apparsa, come un miraggio, una donna di colore completamente vestita di bianco. Un bianco abbagliante in mezzo al grigio dei nostri cappotti tutti uguali. Un copricapo che le si avvolgeva in spire alla regale testa, un abito lungo con balze e pizzi, stivali. Tutto bianco. E occhiali a specchio, come se ne vedono ormai raramente, retaggio degli anni '80. Un'immagine bellissima e distante, altera ed irreale. L'ho immaginata su una duna, in mezzo al deserto, sotto un sole altrettanto abbagliante, con il profilo rivolto all'orizzonte lontano, in un inseguirsi di creste sabbiose, in un silenzio immoto. Tutti gli altri, io compresa, così insignificanti ed incolori al cospetto di questa regina.
Poi, ad un'altra fermata, un cantiere in attività. Le solite palazzine tutte uguali, tristi, che rovinano i dintorni di Roma e che frammentano quei pochi angoli di campagna che ancora la cingono. Eppure ho notato la grazia e la bellezza di una gru che scavava e raccoglieva terra, spostantola altrove. Il suo movimento era fluido, sinuoso, sembrava animata da vita propria, creatura antica, dinosauro riportato in vita. Pareva brucare l'erba per poi alzare il collo flessuoso verso il cielo, incurante del mondo attorno a lei che era andato avanti.
Infine il frastuono caotico e disorientante delle macchine che sfrecciavano sotto il cavalcavia del treno, alla fermata dell'autobus, dove l'aria è impregnata dell'odore di uno sporco stratificato da decenni e dal rumore metallico e carico di smog delle auto. La mia mente ha cercato di estraniarsi, di lasciare fuori quei suoni, mentre i miei occhi correvano alle finestre di un palazzo affacciato sulla strada, dove mani di domestiche pulivano vetri, sbattevano stracci, chiedendomi che cosa ne pensavano di tutto quel rumore. Una donna si è fermata e ha parcheggiato lo scooter, attardandosi a sistemarsi i capelli dopo aver tolto il casco, scrutandosi nello specchietto, incurante di tutto quello che le stava attorno, dell'uomo straniero (pakistano?) che la guardava perplesso.
Al ritorno un'amica mi ha dato un passaggio in macchina ed è stato un flusso di luci rosse di macchine davanti a noi, quasi un anticipo di Natale e poi, mentre ci avvicinavamo verso casa, una strada finalmente buia, dove la mente poteva riposare ed i profili delle colline si stagliavano contro il riverbero lontano delle luci della città, dove potevo di nuovo vedere le stelle.

domenica 4 novembre 2012

Suoni consolanti

E' stata una domenica di nebbia. La collina ne era avviluppata e non si poteva scorgere niente oltre il giardino. E' caduta una pioggia lieve, discreta ma insistente.Giornata da casa. Amo in generale il cosiddetto "brutto tempo" e le giornate come questa mi fanno sentire protetta, come se potessi essere nascosta dalla vista del mondo. Forse una reminescenza della vita intrauterina, quando tutto è oscuro e distante, ma non vi è smarrimento, solo senso di protezione e calore.
A parte essermi tuffata in una consistente mole di lavoro di battitura testi, sono riuscita a dedicarmi anche un po' alla lettura di "I migliori anni della nostra vita" di Ernesto Ferrero, che non ha niente a che vedere con trasmissioni televisive, ma che rievoca in un modo coinvolgente ed irresistibile gli anni d'oro della casa editrice Einaudi. Un libro che ho comprato usato qualche mese fa e che d'improvviso ho iniziato a leggere, venendone inesorabilmente conquistata, trascinata, ammaliata. Oggi mi sono quindi persa tra i corridoi di Via Biancamano e tra le espressioni ed i moti d'animo di Calvino, Pavese, Bollati & co.
Questa sera, dopo un breve (raffreddori e mal di gola sono ancora di casa) ed allegro bagno con la mia piccola, mi sono lasciata di nuovo cullare da qualcosa. Questa volta non dalla nebbia, ma dal mio phon (e dalla mia bimba che mi sedeva in braccio aggrappata come un koala). Mentre mi asciugavo diligentemente i capelli (nel tentare di risparmiarmi dolori di cervicale), ho pensato a quanto adoro il suono consolante del phon, come pure quello della lavastoviglie e della lavatrice.
Ricordo che quando ancora vivevo nella casa dei miei genitori, fin da piccola, trascorrevo a volte ore in bagno, accanto alla lavatrice che girava e girava, calda e ripetitiva, mormorando la sua nenia sempre uguale e per questo così capace di ipnotizzarmi, di farmi perdere dietro ai miei pensieri fino ad annullarmi, una sorta di meditazione moderna.
Questi suoni in passato non esistevano. Se fossi vissuta in un altro tempo, non mi avrebbero potuto cullare, consolare, calmare il mio umore mutevole.
C'è ancora nebbia questa sera e la lavastoviglie mi sta cantando la sua ninna nanna. La nebbia mi ha fatto tornare in mente un libro letto anni fa, che mi era piaciuto molto, se non ricordo male. Si tratta di "Gap" di Marcello Fois, in cui il presente si intreccia con il passato proprio nella nebbia, che diviene un luogo in cui si annullano i confini spazio-temporali e teatro di un incontro tra tre giovani di oggi e altri giovani del passato, un gruppo di partigiani. Ecco il tema a me caro che ritorna, come un leit motiv di tutta la mia vita.
Continuo ad ascoltare il morbido canto della lavastoviglie riprendendo in mano il libro di Ferrero. Torno a sbirciare nelle stanze di Via Biancamano, a seguirne i protagonisti nel loro ritiro spirituale sulle Alpi e a sedermi accanto a Calvino...

giovedì 1 novembre 2012

Soddisfazioni della notte di Halloween

Niente festeggiamenti di Halloween ieri sera. A parte che stiamo sempre tutti e tre male (l'asilo è veramente un'arma di distruzione) e che il mio lui era al lavoro, ieri sera fuori imperversava una specie di bufera e la collina era avvolta dalla nebbia e dal vento. Diciamo quindi che ho festeggiato in maniera un po' grossolana ma gratificante, travestendomi da me stessa quale ero mesi e mesi fa. Ovvero provando i miei vestiti che finalmente riesco ad indossare di nuovo (la dieta per riequilibrare l'organismo ha funzionato a meraviglia).
La cosa da ricordare è che, all'improvviso, mia figlia, che stava giocando vicino a me mentre provavo gli abiti, mi ha indicato e ha detto: "Bella! Carina!", annuendo con la testa, e lo ha ripetuto con il vestito successivo. Mi ha suscitato una tenerezza incredibile. Uno dei complimenti più dolci mai ricevuti.
PS: la foto non c'entra niente con ieri sera. E' stata scattata qualche mese fa, per sbaglio, ma l'ho amata da subito e, in qualche modo, è un po' una sintesi dei mesi scorsi.

martedì 30 ottobre 2012

The House in the Woods

Photo: Fagerström & Willamo
Da sempre ho una passione per le case abbandonate. Forse più di una passione. L'immagine di una casa ormai abbandonata mi risuona dentro da molti anni e ha giocato un suo ruolo all'inizio della storia con il mio compagno. Ho scritto varie volte storie che ruotavano attorno a case abbandonate. Ne ho visitate alcune, scattando mille foto per cercare - invano - di riportare a casa le impalpabili sensazioni che quelle stanze vuote mi suscitavano. Ho avuto modo di vedere fabbriche in disuso ed anche un incredibilmente suggestivo albergo abbandonato (altre fissazioni nelle mie storie).
Non a caso, durante l'adolescenza, amavo (ed amo) La casa dei doganieri di Montale ed ho adorato le pagine di Gita al faro in cui la Woolf parla del vento che si insinua nella casa e la visita, esplorandone gli angoli più reconditi.
Photo: Fagerström & Willamo
Amo la natura che si impossessa dei luoghi abbandonati, trasfigurandoli e mutandoli in una creazione che non è più solo umana. Fin da piccola rimasi colpita dai rovi che avviluppavano il castello della Bella Addormentata, come pure dalle stanze dimenticate di ville e castelli invase dalle piante di qualche romanzo e film per bambini.
Così come ho un debole per le case abbandonate, ne ho un altro per gli animali del bosco e per i Paesi Nordici.
Photo: Fagerström & Willamo
L'altro giorno - in un raro momento di pace - mi è capitato di imbattermi in una felicissima combinazione di tutto ciò leggendo questo articolo, in cui si parla di un fotografo finlandese, Kai Fagerström, che ha esplorato alcune case abbandonate a Suomusjärvi, nella campagna finlandese, scoprendovi un grande fermento di vita, dal momento che tassi, volpi, civette e altri abitanti del bosco le avevano elette a loro dimora. Fagerström, pazientemente, nell'arco di 10 anni, ha realizzato numerosi scatti (insieme a Heikki Willamo, autore di libri per bambini e fotografo) che ritraggono i nuovi abitanti che si aggirano per le stanze e l'effetto è assolutamente incantevole e suggestivo. Dalle fotografie si coglie il silenzio e i fruscii furtivi, l'atmosfera rallentata, sospesa di quegli ambienti e le immagini sembrano scaturite da un libro illustrato per bambini.
Sul web sono visibili poche foto, ma è stato pubblicato un libro, The House in the Woods, che raccoglie le foto del progetto accompagnate da testi di Heikki Willamo e da poesie di Risto Rasa e che è acquistabile qui, sul sito del Natural History Museum. Fagerström, per questo suo lavoro, nel 2010 ha vinto il Wildlife Photojournalist Award. Direi che se lo è proprio meritato ed ho deciso che il suo libro sarà il mio autoregalo per Natale.
Photo: Fagerström & Willamo
Nel sito di Fagerström si possono vedere alcune altre foto del progetto, mentre in questo articolo del sito Books from Finland (sito che ho sbirciato al volo, ma su cui voglio tornare perchè l'ho trovato interessante) si può leggere un estratto del libro.

domenica 28 ottobre 2012

L'amico immaginario

E' una giornata di nuvole e vento. Ho il naso che gocciola e doloretti dappertutto. L'asilo ha colpito anche me. Ho resistito tenacemente fino ad oggi, mentre mia figlia ed il mio compagno erano posseduti da svariati virus influenzali. Alla fine non ce l'ho fatta. Però ci ho sperato fino all'ultimo. Ieri sera, dopo essere riuscita a mettere a letto la mia bimba, caricato la lavastoviglie e dato due crackers ormai invecchiati a Moony, il mio cane femmina, per consolarla del maltempo che infuriava fuori, sono riuscita finalmente a mettermi a letto per finire le ultime pagine di un romanzo che mi è stato prestato e consigliato qualche giorno fa da mia suocera, "L'amico immaginario" di Matthew Dicks.
E' un libro che è capitato al momento giusto, alla ripresa del II semestre di lezioni della specializzazione per il sostegno, perchè è una storia raccontata da Budo, l'amico immaginario di Max, un bambino autistico. Mia suocera mi aveva detto che si leggeva tutto d'un fiato. Io non ne ero molto convinta, perchè solitamente i romanzi che escono di recente non mi appassionano molto, ma, dal momento che i nostri gusti in fatto di libri sono molto simili, le ho dato fiducia ed ho iniziato a leggerlo.
Si legge davvero in pochissimo tempo, perchè la storia è scritta in modo scorrevole, avvincente ed è umanissima. Mi ha felicemente sorpreso. Non voglio raccontare nulla della trama, prima di tutto per non togliere la sorpresa a chi ha intenzione di leggerlo e poi perchè penso che già il fatto che sia una storia raccontata da un amico immaginario sia già sufficiente per destare curiosità.
Mi ha ricordato per alcuni versi "Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte" di Mark Haddon, che avevo letto qualche tempo fa. Ultimamente escono vari romanzi che provano a rappresentare la realtà a noi sconosciuta delle persone autistiche, spesso con il rischio di metterne in luce solo gli aspetti più eccezionali e sensazionalistici, dimenticandone la quotidianità, il vissuto doloroso e difficile delle famiglie, le difficoltà che si incontrano nell'impatto con l'ambiente sociale.
Il libro di Dicks è un romanzo, certo, ma mi è sembrato anche capace di tratteggiare quest'altra parte della realtà. Matthew Dicks è un insegnante americano (da qualche parte ho letto che è insegnante di sostegno, ma non sono riuscita ad appurarlo con certezza) e questo spiega il suo modo di descrivere la scuola, che - si capisce da come scrive - è espressione di una visione "dal di dentro". Ho scoperto che Dicks ha un suo sito ed un suo blog e che su Flickr vi sono le foto sue, di sua moglie, dei suoi figli. E questo me lo ha reso più vicino, reale, meno, insomma, "immaginario".
Dal momemto che si parla di amici immaginari è stato inevitabile pensare al mio, anzi alla mia amica immaginaria, vissuta per poco tempo, non ricordo neppure quanti anni fa di preciso. Ne rammento l'aspetto, perchè era stato preso direttamente da un episodio di uno dei miei cartoni animati preferiti, L'incantevole Creamy. Era una fata, o forse un fantasma, ed io l'avevo chiamata Vergine - non so proprio perchè - e avevo immaginato vivesse nella torre medievale del mio paese. Ricordo che un giorno ne parlai a mia nonna, indicandole la torre che si vedeva dal terrazzo di casa sua. Lei sorrise e mi chiese: "Ma tu sai cosa vuol dire vergine?". Non ho memoria della mia risposta e forse è meglio così...

Voglio annotare qui qualche frase, giusto per ricordarla:
"Ci sono due tipi di maestre al mondo. quelle che fanno finta di insegnare e quelle che insegnano davvero. e la signorina Daggerty e la signora Sera e soprattutto la signora Gosk appartengono al secondo tipo. Loro parlano ai bambini con unavoce normale, e dicono le stesse cose che direbbero a casa loro. Hanno la bacheca sempre piena di fogli e la cattedra un po' in disordine e i libri sparsi qua e là, ma i bambini le adorano perchè parlano di cose vere con la loro vera voce, e dicono sempre la verità. e' per questo che Max adora la signora Gosk. Lei non fa mai finta di essere una maestra. Lei è se stessa e basta, e questo permette a Max di rilassarsi un po'. Non c'è niente di cui aver paura con lei.
... Le maestre che fingono di insegnare non riescono a tenere a bada i bambini. Preferiscono quelli che se ne stanno seduti al loro posto e ascoltano con attenzione e non tirano mai gli elastici ai compagni. Vorrebbero che tutti i bambini e le bambine fossero com'erano loro ai tempi della scuola, ordinati e carini e perfetti. Le maaestre che fanno finta di insegnare non sanno cosa fare con i bambini come Max o Tommy Swinden ... Loro non capiscono i bambini come Max perchè preferirebbero insegnare a delle bambole piuttosto che a dei bambini veri. Usano le bacchette e i registri e le pagelle per tenere a bada gli alunni, ma nessuna di queste cose funziona davvero.
La ignora Gosk e la signorina Daggery e la signora Sera, invece, vogliono bene ai bambini come Max e Annie, e perfino a Tommy Swinden. Ti fanno proprio venire voglia di comportarti bene, e non hanno paura di dire ai bambini che stanno rompendo le scatole."
"-  ... Nessuno tratta Max come un bambino normale, ma tutti vorebbero che fosse un bambino normale, invece di essere se stesso. E nonostante questo, Max continua ad alzarsi lo stesso tutte le mattine e ad andare a scuola e al parco e pure alla fermata del bus. - 
- Per questo dici che è coraggioso? - chiede Oswald.
- Il più coraggioso di tutti - rispondo io."

mercoledì 26 settembre 2012

I'm goin' where the sun keeps shinin'

Qualche giorno fa avevo scritto qualche riga a proposito di una persona che conoscevo e che non stava bene. Da lunedì questa persona non c'è più. Era una mia compagna di classe del liceo. Aveva solo 33 anni. In questi giorni non ho fatto altro che pensare a lei e a quegli anni. A scuola non era una delle mie più care amiche, eppure, d'improvviso, l'ho risentita così vicina da straziare. Ne ho ricordato le espressioni, il carattere forte, la risata. L'ho rivista, con il viso concentrato, mentre risolveva con facilità e naturalezza complicatissimi esercizi di matematica. Era così brava in matematica. La più brava della classe. Io ero tutta persa dietro le materie letterarie e quello che lei riusciva a fare era per me un rebus inestricabile. Ricordo di averla vista piangere solo una volta in cinque anni, per rabbia. Ci eravamo perse in questi anni. Solo qualche fugace messaggio su Facebook. Mi ero riproposta tante volte di riallacciare meglio i contatti, ma poi, forse per il ricordo del nostro rapporto non idilliaco in passato, avevo sempre lasciato perdere, come non potessi credere che le persone crescono, cambiano, maturano. I giorni scorsi, invece, avrei dato chissà cosa per poterle essere vicina.
Oggi c'è stato il funerale ed io non sono potuta essere presente. La lontananza, il problema di come sistemare la mia bimba ed il suo inserimento al nido hanno complicato tutto. Ieri mi sono dibattuta tutto il giorno su come riuscire ad andare, per poi arrendermi. Non riuscivo a far quadrare il cerchio.
Mentre guidavo verso Roma pensavo a lei, agli altri miei compagni che avevano ricevuto la notizia come un brutto colpo, a tutti questi anni di lontananza, a come li sentissi d'improvviso di nuovo tutti vicini. Avrei voluto essere davanti ad un film come Il Grande Freddo, invece di ritrovarmici immersa. Ho saputo da una compagna, quasi l'unica con cui sono rimasta in stretto contatto, che ha avuto modo di rivedere più o meno tutti gli altri compagni e di essersi resa conto di come siamo rimasti gli stessi di allora, solo con qualche anno e qualche figlio in più. Stavano organizzandosi per incontrarsi di nuovo, finalmente, dopo tutto questo tempo. Allora ho sentito ancor di più il desiderio di rivederli tutti e mi sono domandata perchè proprio la scomparsa di uno di noi doveva riuscire ad avvicinarci.
Pensavo alla mia compagna e tutte le parole mi sembravano vane e piene di retorica. In questi casi non ci sono parole od equazioni di matematica per spiegare e giustificare le ragioni di una malattia che ti porta via senza pensarci troppo.
Mi è solo tornata in mente una canzone che amo molto, Everybody's Talking di Harry Nillson (apre il film Un uomo da marciapiede e vi ritorna come leitmotiv durante tutta la storia). Allora ho pensato che forse questa era adatta. Ho immaginato la mia amica guardarci da non so bene dove, ormai serena, sorridendo, canticchiando questa canzone, mentre il vento le scompiglia i capelli e le nostre lacrime sono solo un'eco lontana che frange il sole nei suoi occhi scuri.
Everybody's talkin' at me
I don't hear a word they're sayin'
Only the echoes of my mind
People stop and stare
I can't see their faces
Only the shadows of their eyes
I'm goin' where the sun keeps shinin'
through the pourin' rain
Goin' where the weather suits my clothes
Bankin' off of the northeast wind
Sailin' on a summer breeze
Skippin' over the ocean like a stone
Everybody's talkin' at me
I don't hear a word they're sayin'
Only the echoes of my mind
People stop and stare
I can't see their faces
Only the shadows of their eyes
I'm goin' where the sun keeps shinin'
through the pourin' rain
Goin' where the weather suits my clothes
Bankin' off of the northeast wind
Sailin' on a summer breeze
Skippin' over the ocean like a stone
Everybody's talkin' at me
I don't hear a word they're sayin'
Only the echoes of my mind
And, I won't let you leave my love behind
No, I won't let you leave my love behind
And, I won't let you leave my love behind
And, I won't let you leave my love behind
And, I won't let you leave my love behind 


venerdì 21 settembre 2012

Libri dimenticati (ma non da me) - Parte 2

Per lo scorso Venerdì del Libro, avevo proposto tre libri "dimenticati", partecipando così all'iniziativa di Palmy Il Cimitero dei Libri dimenticati: share a lost book. Questa settimana, per mancanza di tempo, ne presento solo uno, riservandomi gli altri per post successivi.
Il segreto di Santa Vittoria - Robert Crichton (Bompiani, 1968)
A vederlo non gli avrei dato due soldi. A lettura iniziata ancora non ne ero molto convinta. Dopo un po', però, ho iniziato a divorarlo. La vicenda è ambientata a Santa Vittoria d'Alba, un paesino del Piemonte, nel 1943 e prende spunto da un fatto realmente accaduto. Tutto ruota attorno ad un milione di bottiglie di vino, il vero tesoro del paese, che i tedeschi cercano accanitamente e che gli abitanti cercano altrettanto tenacemente di nascondere (il punto infatti è: come nascondere bene in poco tempo così tante bottiglie e come fare a mantenere il segreto sul loro nascondiglio?). La figura principaabilile è quella del sindaco Italo Bombolini,, ma attorno a lui si muovo tutta una serie di personaggi godibilissimi. Il risultato è un romanzo irresistibile (almeno per me), che il "Time" ha definito "il più comico romanzo di guerra". I personaggi sono ben caratterizzati, la storia è pervasa da un umorismo intelligente e molti lo hanno associato ad un'avventura di Don Camillo in tempo di guerra. Me lo sono gustato come mi capita spesso di fare con i romanzi di Camilleri (penso in particolare a Il birraio di Preston), anche in quelle pagine che narrano in maniera diretta e cruda alcuni episodi di violenza da parte dei tedeschi (è vero che è per lo più esilerante, ma è pur sempre un romanzo di guerra). Da questo libro è stato tratto anche l'omonimo film del 1969 diretto da Stanley Kramer con Antonhy Quinn, Anna Magnani, Virna Lisi, Renato Raschel e Giancarlo Giannini (che però ancora non ho visto). 
Il confronto tra versione letteraria e trasposizione filmica, l'ambientazione durante la Seconda Guerra Mondiale ed il riferimento al paese dove è presente lo storico stabilimento della Cinzano potrebbero essere ottimi spunti per lavorarci anche a scuola (magari si potrebbe anche fare un parallelo con altri libri ambientati nello stesso periodo, per esempio proprio alcune opere di Camilleri... Ok, basta.Sto andando un po' troppo avanti con la fantasia...).

giovedì 20 settembre 2012

Fiore d'oro

Lunedì, purtroppo, ho avuto una terribile notizia a proposito di una persona che conosco, ma che non vedo più da tanti anni. In questi giorni non ho fatto altro che pensarci e ripensarci. Mi sono tornati alla mente tanti momenti del passato. Non ho mai avuto un gran rapporto di amicizia con questa persona, ma oggi, il sapere della sua sofferenza, mi è arrivato addosso come una doccia fredda, freddissima e mi ha fatto stare molto male. Mi sono sorpresa a pensare a lei nominandola nella mia mente con il suo nome abbreviato, come facevo un tempo, quando la frequentavo, come se d'improvviso la distanza si fosse colmata e mi fossi ritrovata indietro nel tempo. Non voglio parlarne oltre, per rispetto e perchè in questi casi non esistono parole. Oggi, però, mentre ci pensavo su, mi sono ricordata di una leggenda cinese che avevo sentito raccontare dalla mia maestra delle elementari a proposito della nascita del crisantemo. Secondo questa storia, una bambina vegliava in lacrime la madre che stava morendo, tanto che uno spirito si commosse e le donò un fiore, dicendole di darlo alla Morte, che avrebbe dovuto concedere alla madre tanti giorni quanti erano i suoi petali. La bambina allora divise in tantissime striscioline sottili ogni petalo del fiore, così, quando giunse la Morte, concesse alla madre ancora moltissimi giorni da vivere con la sua bambina. Era nato il crisantemo, fiore originario della Cina (poi diffusosi anche in Giappone), il cui nome significa "fiore d'oro" e che simboleggia, a dispetto di quello che siamo abituati a credere noi, vita e gioia.
Oggi, se potessi, farei come la bambina della leggenda.
PS: la foto non è mia e mi scuso con la fonte, ma ho cercato un'immagine in cui il fiore avesse più petali possibile.