giovedì 28 marzo 2013

Il tormento della scrittura

Avevo 7 anni quando scrissi la mia prima poesia ed iniziai ad immaginare un futuro da poeta o da scrittore o entrambe le cose. Ero ambiziosa. Con il passare degli anni questa idea divenne un chiodo fisso. Le due cose a cui non avrei mai rinunciato, così risposi ad un'insegnante del liceo, erano leggere e scrivere. Al liceo ero in un continuo stato di ebbrezza letteraria, persa tra romanzi, racconti e poesie, in intima confidenza con autori che scoprivo e di cui mi innamoravo. Il sogno di essere un giorno accolta in una sorta di Pantheon in cui ritrovarli tutti mi faceva girare la testa.
Una professoressa mi propose di partecipare ad un concorso di poesia, ma all'ultimo momento, per una serie di coincidenze fortuite, non riuscii ad iscrivermi e forse vi vidi un segno del destino. Da adolescenti si è sempre molto tragici. Sta di fatto che da allora non trovai più il coraggio di uscire allo scoperto, continuando a coltivare il sogno praticamente in segreto.
Soltanto qualche anno fa, ebbi finalmente l'ardire di inviare qualche racconto al Premio Calvino, ma sempre all'ultimo minuto, sul filo del rasoio, non riuscendo a mandare che poche vecchie pagine, il minimo per partecipare, perchè di tutto il resto non ero né convinta né soddisfatta. Ovviamente non fui selezionata, anche se il giudizio che mi fu inviato conteneva alcuni commenti che mi resero felice ed altri che mi fecero riflettere su alcuni aspetti da rivedere delle mie storie.
In ogni caso, con il passare del tempo ho lentamente e mestamente abbandonato il sogno. O, meglio, ho razionalmente deciso di lasciarlo andare via. In realtà lui è rimasto sempre lì, come brace sotto la cenere.
Tra i tanti motivi che mi hanno portato a desistere, vi è un non motivo che però si trascina dietro tutti gli altri. Siamo in un momento paradossale, in cui le vendite dei libri, come pure i prestiti in biblioteca, hanno subito un'inflessione mai avuta prima, ma in cui il numero di persone che desiderano scrivere e "fare lo scrittore" è lievitato in maniera impressionante. Mi accodo pure io e mi sento sciogliere, quindi, in un mare di mediocrità. Non che non sia giusto coltivare questo sogno o sentirsi scrittori o comunque provarci, soltanto che temo semplicemente di far parte soltanto di una massa mossa dagli stessi intenti in cui è non solo difficile, ma quasi impossibile emergere e, aggiungo, è molto difficile avere i numeri per poterlo fare. Dal momento, quindi, che non ho affatto la presunzione di avere tali numeri, ecco che il passo definitivo verso la rinuncia è stato breve. Anche, confesso, per non sentirmi troppo ridicola.
Tuttavia, un giorno decisi di leggere "Gita al faro" di Virginia Woolf, un libro che mi emozionò e sconvolse e si insinuò indelebilmente dentro di me. Ricordo che fu una lettura lenta, interrotta più volte per la bellezza soverchiante di certi passaggi, che erano talmente perfetti da richiedere una pausa. Tra i mille doni che questo libro mi ha lasciato tra le mani, uno, più di tutti, ha un'eco che continua nella mia mente. Questo libro mi ha detto che vale comunque la pena di scrivere. Anche se ciò che scrivo finirà in un angolo, dimenticato e sconosciuto a tutti, ne sarà comunque valsa la pena, perché in qualche modo ciò che si crea rimane per sempre e perché l'importante è aver avuto la propria visione. E tutto questo non ha prezzo, è qualcosa di inestimabile.
Ho sempre, purtroppo, le mie cadute a tal proposito ed ogni tanto devo risfogliare quelle luminose pagine e ritrovarvi quelle parole per ricrederci almeno un po'.
Pochi giorni fa ho terminato di leggere "Espiazione" di Ian McEwan, un autore di cui in passato avevo avuto modo di leggere, senza rimanerne troppo colpita, "Il giardino di cemento". Di questo libro, invece, ho amato subito la copertina. La foto della ragazzina seduta sui gradini di pietra dal volto che mi ricorda irresistibilmente Elsa Morante. E' un libro in cui una ragazzina di 13 anni, Briony Tallis, in un torrido giorno dell'estate del 1935, decide di essere diventata scrittrice e, nello stesso giorno, con una odiosa bugia condannerà un innocente segnando per sempre anche il corso della propria vita.
Durante la lettura di tutta la prima parte non sono mai riuscita ad immaginarmi le vicende ambientate nel 1935, ma piuttosto negli anni '60 ed è qualcosa che non riesco veramente a spiegarmi e che tuttavia mi ha condotto ad iniziare la seconda parte, ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale, con un vago senso di smarrimento. Ho trovato il tutto costruito ad arte, con una chirurgica precisione, ma ancora senza troppe emozioni, fino a quando mi sono imbattuta nella descrizione dell'episodio di linciaggio di un uomo della RAF da parte di altri soldati inglesi che è un vero piccolo capolavoro, a mio giudizio.
Briony ritorna nuovamente protagonista nella terza parte del libro e dopo averla quasi odiata in tutte le pagine precedenti, la si ritrova come una giovane adulta, intenta ad espiare la sua colpa e ad inseguire ancora segretamente il suo sogno di diventare scrittrice. E' qui che l'ho sentita vicina, che sono riuscita a perdonarla e a guardarla con più indulgenza, osservandola mentre scrive su un quaderno prima di spegnere la luce. "Al tempo, il diario le serviva a conservare la propria dignità: poteva anche apparire e comportarsi e vivere come un'infermiera tirocinante, ma in realtà era una grande scrittrice in incognito. E in un periodo in cui era tagliata fuori da tutto ciò che conosceva - famiglia, casa, amici - la scrittura rappresentava il filo della continuità. Quello che Briony faceva da sempre." Briony aveva letto Virginia Woolf e aveva inviato un suo racconto nella speranza di essere pubblicata. Come non sorridere con indulgenza di fronte a tutto ciò? Come non sentirla improvvisamente vicina ed amica?
Briony riceve una lettera di risposta che accompagna il rifiuto del suo racconto e che illustra quali sono gli aspetti che appaiono ancora immaturi. E' una lettera che ho bevuto con gli occhi e da cui ho tratto anch'io più di un ottimo insegnamento. In tale modo questo libro è riuscito a riaccendere in me il tormento e la riflessione sulla scrittura, che a ondate mi riassale, lasciandomi ogni volta distrutta e un po' boccheggiante.
Appena terminato "Espiazione", per non riflettere troppo sull'argomento, mi sono gettata nelle breve lettura di "Il ballo" di Irène Némirovsky (e su di lei andrebbe aperto un capitolo a parte, dal momento che ho letto recentemente il suo splendido "Suite francese"). Al di là delle considerazioni sul testo in sé, ho letto alcune frasi dell'introduzione di Maria Nadotti che hanno invece continuato a far fluire le mie riflessioni sulla scrittura: "La scrittura come sfida furente al 'destino femminile', come alternativa al mestiere e al ruolo assegnati alle donne." e ancora "Come è capitato a quasi tutte le grandi artiste [...] anche per Némirovsky la biografia è punto di accesso all'opera. Non solo perché, quando l'artista è donna, i critici tendono a ridurla alla dimensione esistenziale, ad attraversarne l'opera osservando dallo spioncino della vicenda privata. Ma perché le migliori artiste di sesso femminile non hanno mai separato l'opera dalla vita se non attraverso il formidabile atto del dare forma. Basti pensare ad alcuni nomi celebri: Artemisia Gentileschi, Virginia Woolf, Frida Kahlo, Louise Bourgeois."
Su questo tema molto ci sarebbe da dire ed è quasi immediato e banale anche il richiamo a "Una stanza tutta per sé" di Virginia Woolf, ma questa è un'altra storia... ed il mio tormento continua...

3 commenti:

maris ha detto...

Non posso commentare, Tamara. O meglio non so come commentare.
Non lo so semplicemente perchè non trovo le parole per dirti quanto mi sento vicina a te, ai tuoi pensieri, ai tuoi tormenti.
Ecco un'altra cosa che ci accomuna: il sogno, messo da parte ma in realtà non del tutto, che è rimasto lì "sotto la brace", di fare la scrittrice.
Mi sento emozionata già solo a scriverti queste poche righe...oltre non riesco a dire.

So che tu hai compreso.

Ti abbraccio, con più affetto che mai.

Manu ha detto...

Sono almeno cinque minuti che fisso lo schermo cercando le parole giuste. Sì perchè il tuo post avrei potuto scriverlo io. Da bimba e poi da ragazza ero "certa" che un giorno sarei diventata una scrittrice. Era il mio sogno. Poi la mia vita ha preso altre strade e quel sogno l'ho messo in una scatola pensando che un giorno avrei avuto più tempo per realizzarlo.
Ora so che l'ho messo via per sempre.
Quello che hai scritto sulla "scrittura oggi" è il mio stesso sentimento. Non voglio essere una dei tanti mediocri e sono certa di non essere all'altezza.
Se scrivo, scrivo per me e nessuno leggerà mai le mie pagine.

Tamara ha detto...

x maris: cara Maris, già, un'altra cosa in comune! Lo so, non ci sono altre cose da dire, ti capisco perfettamente e comprendo anche il fatto di essere emozionata anche solo nel dichiarare questo sogno. E' un sogno che ogni volta che ne parlo fa palpitare anche me, per emozione, imbarazzo, speranza, un miscuglio di sentimenti. Ti abbraccio forte

x manu: ti capisco, come dicevo anche a maris. Mi colpisce il tuo messaggio quando dici "Era il mio sogno". Quel "mio" risuona come un macigno, come qualcosa di intimo e viscerale, così come l'altra frase "Ora so che l'ho messo via per sempre". C'è qualcosa di così definitivo che mi ha fatto pensare. La tua lucida consapevolezza, l'idea che le braci si siano spente davvero...Io me lo dico ogni tanto, ma c'è una parte di me che ancora rimugina quel sogno da qualche parte, rimandandolo appunto ad un futuro indistinto. C'è stato un periodo in cui mi ero detta le tue stesse parole e ne ero stata quasi sollevata, il tormento era stato come accantonato, finalmente, per sempre. Ma i sogni sono duri a morire ed ogni tanto ritornano fuori. Capisco anche quando dici che non hai intenzione di far leggere a nessuno le tue pagine, lo comprendo benissimo. Anni fa feci leggere alcune pagine ad amiche e fu per me difficilissimo, anche se poi ne fui molto felice. Un grande abbraccio